Ultima modifica 29 Agosto 2023
Ci sono giorni in cui guardo mia figlia e mi scopro ad osservarla con occhi stupiti.
Non la riconosco, non è la stessa di qualche giorno prima (e, a volte, nemmeno di qualche minuto prima).
Gira per casa con quell’atteggiamento che io definisco “avere la testa in una dimensione parallela“: le chiedo di mettere a posto le scarpe che ha appena tolto e, nonostante le rassicurazioni, le ritrovo sempre nella medesima posizione.
Le faccio una domanda (a volte anche banale) e mi sembra di parlare con una sordomuta. Quando va bene è lei a iniziare a raccontare qualcosa ma la narrazione si interrompe improvvisamente e, alla mia richiesta di proseguire, lei mi guarda con occhi stupiti chiedendomi di cosa stesse parlando.
Inutile condividere poi il costante disordine in camera (non parliamo dei libri ammucchiati sulla scrivania), del processo di inglobamento nel cellulare o nella tv, del dover inutilmente continuare a ripetere sempre le stesse cose. Perché è inutile?
Perché voi genitori di figli delle medie sapete esattamente di cosa io stia parlando.
Anche fuori casa, quando mi confronto con altri adulti che hanno prole nella stessa fascia d’età, sento raccontare le stesse situazioni. E le stesse frustrazioni.
Le reazioni, quelle no. Non sono uguali per tutti.
C’è chi esplode e butta tutto all’aria intimando alle figlie di non uscire dalla stanza fino a quando non avrà ripreso un aspetto minimamente umano.
Chi sorride e lascia che il caos prenda talmente tanto il sopravvento da inglobare anche i figli così che si accorgano che è ora di intervenire.
Qualcuno si deprime arrivando addirittura a domandarsi se non abbia generato un essere privo di intelligenza.
Altri ancora, con una costanza certosina, non mollano e continuano a trattare i loro figli come quei bei bambini paffuti che fino a qualche mese prima davano tante soddisfazioni sperando di auto convincersi di essere in un incubo. Che prima o poi finirà.
Tutte strategie attuabili che, però, difficilmente porteranno qualche risultato visibile se non si tiene in considerazione il perché di tali atteggiamenti da alieni che a volte ci fanno dubitare delle connessioni sinaptiche dei nostri preadolescenti.
Perché una spiegazione c’è. Giuro.
Ed è anche una spiegazione scientifica, psicologica e biologica.
Mica ciccia.
La fascia d’età compresa tra gli 11 e i 15 anni (numeri ovviamente da prendere in modo non rigido perché ogni ragazzo è a sé) rappresentano una delle fasi dello sviluppo cerebrale più importante e complesso dell’evoluzione.
Tecnicamente si chiama “fase delle operazioni formali” ed è l’ultima tappa dello sviluppo teorizzato da Jean Piaget durante i suoi studi sullo sviluppo cognitivo del bambino.
Quando si parla di sviluppo cognitivo si è soliti riferirsi al progressivo evolvere delle capacità intellettive che variano durante tutto l’arco della vita, mutando e perfezionandosi. Quindi, più nel dettaglio, lo sviluppo cognitivo consente di acquisire informazioni dall’ambiente per immagazzinarle, attraverso rappresentazioni mentali, che permettono di essere utilizzate in momenti successivi della propria esistenza.
Le conoscenze acquisite durante l’interazione con l’ambiente esterno, sono costruite dal bambino, fin dalla nascita, e sono arricchite con il procedere dell’età, sia quantitativamente sia qualitativamente.
I meccanismi attraverso cui si organizzano le conoscenze sono due: l’assimilazione (che è è la ripetizione di una capacità cognitiva già presente nel proprio repertorio comportamentale) e l’adattamento (che consiste nella modificazione di comportamenti già acquisiti in relazione al contesto in cui si vive).
I due processi si alternano per cercare di individuare un equilibrio omeostatico costante che porta a una sorta di controllo della realtà circostante.
Quindi, se dovesse sopraggiungere una nuova informazione non contemplata all’interno degli schemi esistenti, si crea una sorta di disequilibrio.
A questo punto il bambino prova a individuare un nuovo equilibrio modificando gli schemi cognitivi già esistenti incorporando le nuove conoscenze acquisite.
Insomma: un gran lavoro per il cervello di un soggetto in via di sviluppo.
Ecco, ora proviamo a traslare questi complessi meccanismi contestualizzandoli all’ultima fase dello sviluppo cognitivo.
In cosa è impegnato il cervello dei nostri figli mentre li guardiamo muoversi come zombie nel mondo?
La fase delle operazioni formali è quella in cui il ragionamento ipotetico-deduttivo permette di creare scenari puramente immaginativi e la messa in atto di vari tipi di azione.
Insomma: è il momento in cui i nostri ragazzi apprendono la capacità di astrarre.
Quel meccanismo, straordinario rispetto a quelli delle fasi precedenti tutte basate su esperienze concrete e verificabili, in cui i preadolescenti imparano a proiettare sé stessi in situazioni non ancora verificatesi e a ipotizzare strategie di azione teoriche che potrebbero attuare per attraversare l’esperienza.
La pre adolescenza è, in fondo, quell’età in cui il cervello impara a ragionare su sé stesso e su ciò che ci circonda in modo ipotetico, teorico, progettuale.
Praticamente il primo tassello per diventare davvero adulti.
Ora provate a ritornare al tempo in cui i vostri figli, ancora piccoli, guardavano alla tv il cartone animato che spiegava il funzionamento del corpo umano.
Ecco: al netto della malinconia che provate (e io con voi a rivedermi sul divano con la mia piccola) immaginate questi due personaggi (Assimilazione e Accomodamento) che hanno a che fare con tutti gli stimoli che provengono dall’ambiente esterno e che devono organizzarli confrontandoli con le esperienze apprese (modificandole laddove necessario, cioè in ogni situazione) per trasformarli in opzioni ipotetiche e teoriche in continuo mutamento.
Sapendo cosa accade nel cervello dei nostri figli nell’età dello zombie ci risulta più accettabile la situazione?
Forse no, ma almeno sappiamo che una notizia positiva c’è.
L’incubo prima o poi finisce.
In attesa di quello successivo.