Ultima modifica 6 Novembre 2015
I numeri che fotografano lo stato delle nostre Università sono drammatici: ci sono 55.000 tra docenti e ricercatori in servizio, più altrettanti precari, a curare la ricerca e la formazione dei giovani che aspirano a costituire la classe dirigente e i professionisti di domani. L’età media dei professori è superiore a qualsiasi altro Paese dell’Unione Europea, e sebbene siano previsti entro il 2020 circa 10.000 pensionamenti, il ricambio è limitato al 20%, il che significa che entro i prossimi sette anni solo una minima parte dei precari potrà entrare in servizio a tempo indeterminato (fonte Roars).
I numeri degli studenti non sono meno drammatici: rispetto all’anno accademico 2008/2009 ci sono circa 100.000 iscritti in meno, e nella fascia di età tra i 20 e i 34 anni solo il 20% dei giovani ha una laurea, ossia la metà della media europea, e per capirci meglio l’Italia si trova al 34° posto su 36 tra i Paesi Ocse, riuscendo a stampare più pergamene solo della Turchia e del Brasile.
Del resto, l’elevato tasso di disoccupazione tra i laureati non consiglia di intraprendere una strada sempre più costosa per le famiglie, visto che le tasse di iscrizione superano in media i 1000 euro all’anno, e sono inferiori solo a quelle che si pagano in Olanda e nel Regno Unito, nei quali però i servizi agli studenti sono di ben altro livello, tanto che vengono forniti computer, libri, materiale di cancelleria, e perfino il servizio gratuito di baby sitting per le studentesse madri. Da noi, invece, le borse di studio sono ridotte all’osso, e ogni anno scontano una riduzione del finanziamento prima statale, e ormai anche di quello finora assicurato dalle Regioni. Il futuro è ancora più fosco del presente, visto che il Governo ha approvato, a fine dicembre scorso, un taglio di ulteriori 300.000.000 di euro all’Università, con la conseguenza che molti Atenei vedranno avvicinarsi a grandi passi il rischio del fallimento, e saranno costretti a tagliare gli stipendi e/o accorparsi ad altre Università per non scomparire.
Durante il dibattito elettorale avrete sentitola proposta di introdurre il prestito d’onore, ossia il credito erogato agli studenti durante gli anni di iscrizione all’Università, con l’impegno alla restituzione delle somme ricevute nei primi anni di impiego. Peccato che una ricerca pubblicata a fine anno sul New York Times da David Brooks, a titolo “For Poor, Leap to College OftenEnds in a Hard Fall” abbia certificato il fallimento di questo sistema, perché ha prodotto il drastico calo del numero di laureati tra i figli delle classi meno abbienti, ma con risultati scolastici buoni, rispetto al numero dei rampolli delle classi più ricche, ma con risultati scolastici peggiori. E, se non bastasse, la FED ha annunciato che il debito studentesco è aumentato a dismisura, tanto da far temere un nuovo collasso del sistema finanziario, dopo la famosa crisi dei mutui “subprime” del 2006, alla quale molti collegano l’avvio dell’attuale crisi finanzia globale.
Altri propongono l’incentivazione del finanziamento privato dell’Università, fingendo di non sapere che ben difficilmente si troveranno, tanto più in tempi di crisi, imprese intenzionate a finanziare una ricerca su Omero o Pascoli.
Questi i fatti. La mia esperienza personale, certo infinitamente più limitata e naturalmente parziale, ne è purtroppo la conferma. Ho potuto studiare in una città diversa dalla mia grazie alle borse di studio che annualmente “guadagnavo” sostenendo quasi tutti gli esami previsti dal mio piano di studi con una media superiore ai 27 trentesimi, avendo un reddito familiare modesto perché i miei genitori lavoravano come maestra e postino, e anche le altre mie due sorelle studiavano: potevo così dormire e studiare in una camera che condividevo con una mia collega, pranzare e cenare gratuitamente alla mensa universitaria, ero esonerata dal pagamento delle tasse universitarie ricevevo una parte di libri gratuitamente, e pagavo i restanti e le spese di trasporto con l’assegno annuale. Dopo la laurea, ho potuto specializzarmi per altri tre anni grazie ad un’altra borsa di studio, che ammontava a circa un milione di lire al mese, e mi ha sostenuto fino a quando ho vinto il primo assegno di ricerca triennale, poi rinnovato, fino a quando, nel 2006, ho vinto un concorso come ricercatore a tempo indeterminato. Il lavoro che oggi svolgo.
Se mi fossi iscritta oggi all’Università, con le stesse condizioni di merito e di reddito, avrei avuto ben altre prospettive: dal 2011 il Governo, che prima sovvenzionava il 50% dei sussidi per il diritto allo studio, ha tagliato di ben il 95% i trasferimenti alle Regioni per questo titolo, e più della metà di quanti avevano diritto alla borsa di studio l’hanno vista sfumare come un miraggio, come il pasto gratuito e le altre provvidenze.
I corsi di dottorato e le scuole di specializzazione sono ormai finanziati quasi esclusivamente con fondi privati, quasi inesistenti per le materie umanistiche, ma scarsi anche per quelle tecnico-scientifiche.
I ricercatori universitari non sono più a tempo indeterminato, e chi, spesso a quarant’anni e oltre, riesce a vincere questo concorso ha la prospettiva di un impiego di cinque anni, trascorsi i quali tornerà sul mercato dei disoccupati. O, con espressione solo apparentemente più piacevole, potrà fregiarsi del titolo di abilitato al ruolo di professore universitario di seconda (o prima) fascia, ma dovrà pur sempre sperare di arrivare un giorno finalmente a vincere, successivamente, un concorso per l’impiego come professore in una Università, dove andrà a sostituire, lui solo, cinque professori usciti dal ruolo per pensionamento.
Mi ritengo fortunata, tutto sommato, perché per me l’Università ha funzionato davvero da “ascensore sociale”, consentendomi di svolgere il lavoro che mi appassiona superando le difficoltà economiche che mi avrebbero impedito di studiare oltre il diploma superiore, ma quale futuro attende i miei studenti? O, peggio, quanti ragazzi hanno dovuto rinunciare ad un sogno come il mio, a causa dell’agonia dell’Università e dei fondi destinati al diritto allo studio?
Conclusione amara, ma non tanto quanto la constatazione dell’insensibilità della politica a questo declino: e non c’è nemmeno l’illusione di una proposta elettorale seria a schiarire questo quadro a tinte fosche. Forse, e purtroppo, la vera ragione di questa strategia sta nell’evitare che le Università, culle del libero pensiero fin dalla loro nascita oltre settecento anni fa, formino menti pensanti autonome. Molto meglio formare con le tv tanti automi, nutriti di spot elettorali ormai indistinguibili da quelli pubblicitari, abituarli a ridere vuoti, e a votare inconsapevoli, al comando dello speaker di turno.
Stefania Stefanelli