Ultima modifica 28 Dicembre 2016
Le mamme che rinunciano al congedo parentale (quello successivo al congedo obbligatorio di tre/quattro mesi dopo la data presunta di parto) possono domandare all’INPS un voucher di 300 € mensili, per il massimo di sei mesi, denaro da destinarsi al pagamento della retta del nido o della retribuzione di una baby sitter.
Con circolare n. 48 del 28 marzo scorso l’Istituto ha chiarito che la domanda può essere presentata in forma telematica dalle lavoratrici dipendenti o parasubordinate, entro 11 mesi dalla nascita del bambino o dall’adozione, ed i voucher vengono materialmente erogati alla struttura che gestisce il nido – ma attenzione, deve essere tra quelle accreditate dall’INPS – o come buoni lavoro, da utilizzare per il pagamento di retribuzione, contributi ed assicurazione della baby sitter.
Attenzione dunque anche alla scelta del nido, per verificare se è tra quelli che hanno presentato domanda e sono stati inseriti nell’elenco aggiornato annualmente dall’INPS.
Si può presentare la domanda anche per più figli e se si è fruito di qualche giorno di congedo parentale, ma i voucher possono essere erogati solo per frazioni mensili (mentre il congedo può essere domandato anche per singoli giorni), quindi è opportuno fare i propri conti per non perdere un mese intero del voucher, a fronte di pochi giorni di congedo.
Le lavoratrici part time hanno diritto ad un contributo proporzionale al loro orario di lavoro.
Le risorse sono limitate, per il triennio sperimentale 2013-2015, a 20 milioni di euro, e dunque verrà stilata una graduatoria tenendo conto delle condizioni economiche delle famiglie che ne fanno richiesta: per questo, nella domanda insieme di richiesta del bonus e rinuncia al numero corrispondente di mesi di congedo parentale va presentato l’ISEE, l’indicatore sulla situazione economica equivalente.
Questa è l’altra innovazione voluta dalla riforma Fornero del lavoro: ma quanto può essere concretamente efficace, per coniugare il bisogno di cura dei bambini con l’occupazione delle donne?
Siamo, in Europa, il Paese che pesa di più sulle madri, con un congedo obbligatorio di 5 mesi (di cui almeno uno prima del parto), durante i quali viene pagata un’indennità pari all’80% della retribuzione media giornaliera, aumentata al 100% per il pubblico impiego e per alcune categorie di privati, a seconda del contratto collettivo: in Francia sono 16 settimane, che diventano 26 per il terzo figlio (al 100% della retribuzione), 16 anche in Spagna (sempre al 100%), 15 in Svezia (80% della retribuzione) e 26 nel Regno Unito (ma solo al 46% della retribuzione).
E siamo anche il Paese che meno coinvolge i padri nella cura dei figli: per loro c’è solo un giorno di congedo obbligatorio, e altri due facoltativi: sono 11 in Francia, 14 nel Regno Unito, ben 77 in Svezia.
Rileva notare che la Direttiva europea n. 18/2010 aveva previsto un congedo parentale minimo di quattro mesi e, per promuovere la parità di opportunità e ditrattamento tra gli uomini e le donne, ciascuno dei genitori dovrebbe goderne per almeno un mese, non potendo trasferirlo all’altro.
Per la mamma italiana, invece, restare a casa con i bambini è in realtà un’imposizione, che per le lavoratrici parasubordinate si traduce in una indennità calcolata sul reddito prodotto nell’annualità precedente, senza obbligo di astensione dal lavoro.
Non è invece incentivata con una adeguata tutela la scelta di mamma e papà di prendersi cura personalmente dei bambini: il congedo volontario parentale da noi arriva al massimo a 11 mesi, mentre in Germania, in Franciae in Spagna a 36. In Svezia sono solo (!) 18 mesi, ma la retribuzione è del 66%.
Sono pochi, secondo i dati diffusi dall’ISTAT, i papà italiani che domandano il congedo parentale nei primi anni di vita dei bambini, probabilmente perché conviene che ad usufruirne siano le madri, che nella media percepiscono retribuzioni inferiori, visto che se nericeve solo il 30% (in Svezia si arriva al 69% e in Finlandia al 59%).
Si parla tanto di “quote rosa”: ma siamo ben lontani dal realizzare, almeno nelle misure di sostegno alla genitorialità, le “quote azzurre”, che non solo consentirebbero ai figli di vivere più intensamente, nella quotidianità, il rapporto con i papà, ma contribuirebbero in maniera sostanziale al bilancio delle nostre famiglie, all’inserimento lavorativo delle donne ed alla loro carriera?
Quanto possono aiutare 1800 euro di voucher, e solo per i primi undici mesi di vita del bambino? Quale baby sitter lavorerebbe per 300 € al mese, quanti nidi praticano tariffe mensili simili, e quanti sono i posti disponibili? Questi pochi soldi possono davvero incentivare le mamme a rientrare al lavoro, contribuendo all’economia familiare? O, peggio, convincere gli italiani ad avere figli, come peraltro è fondamentale interesse del nostro sistema previdenziale, ormai prossimo al collasso?
Non condivido il sistema delle quote rosa: non credo infatti che realizzino l’equiparazione delle donne agli uomini, né in politica né nel mercato del lavoro.
Penso, anzi, che lavorerei con molta più serenità se questo fosse il frutto di una mia scelta, e non dell’imposizione derivante da necessità economiche, e sapendo che a casa col mio bambino c’è il suo papà.
Stefania Stefanelli