Ultima modifica 29 Settembre 2016
“Se rispondi correttamente a domande sul Corano vinci un bimbo abbandonato”. E’ questa l’ultima notizia shock da un mondo impazzito. Neonati in premio a un reality tv per una trasmissione in Pakistan. Questo è l’’ultimo caso in tema di reality “oltre la realtà” dove in una trasmissione televisiva molto popolare, il conduttore ha offerto come premio, in cambio di risposte esatte a domande sul corano, bambini abbandonati. L’Ong che collabora con il programma difende l’iniziativa quale estremo rimedio a un male dilagante e terribile quale l’abbandono dei bambini.
Chi fa della comunicazione il proprio mestiere conosce il potenziale e la ricaduta che l’attività del comunicare ha sulla realtà e sulla vita delle persone. Saper comunicare bene significa plasmare, convincere, trasformare. Significa trasmettere valori, cultura, significa incidere sui paradigmi di riferimento di una comunità, di un paese, di una società.
Mi chiedo, allora, cosa stiamo comunicando a noi, ai nostri figli, alle generazioni future?
Che si possono scambiare bambini come trofei? Che il dramma, la sofferenza, il dolore, può essere trasmesso in tv come un romanzo d’appendice?
Ho il terrore di una brutta televisione, di un’informazione di parte, del potere di un’arte che in mani sbagliate può fare danni irreversibili. Di una stampa cieca, di una televisione ossessionata dalla realtà, dello spettacolo a tutti i costi, della spettacolarizzazione del dolore. Siamo consapevoli che la nuova frontiera dell’informazione è lo spettacolo, meglio se cruento, meglio se fa piangere. Poco importa se spinge o meno a riflettere sulla caduta verso gli abissi della nostra comune decenza.
Non so quanti di noi ricordano il dramma di Vermicino, la tragedia di un bimbo, Alfredo Rampi, caduto in un pozzo. Era il 10 giugno del 1981e per tre giorni e tre notti l’Italia intera stette con il fiato sospeso davanti alla tv nella speranza che il bimbo fosse salvato. La favola non fu raccontata, nessuno riuscì a salvare il piccolo e quella vicenda in alcuni lasciò una traccia indelebile come nella cronaca televisiva.
Quel dramma cambiò in maniera definitiva il rapporto tra la tv e la carta stampata, tra l’informazione scritta e quella urlata.
Quella di Vermicino fu una tragedia raccontata, involontariamente, forse, come una fiction. Non si sapeva ancora che quella era la tv del dolore, non si sapeva che certe atrocità fanno salire il picco degli ascolti e vendere pubblicità. Forse allora fu incontrollabile, forse i giornalisti si trovarono a che fare con una cosa più grande di loro e non seppero gestire la notizia in modo diverso. Sta di fatto che quella tragedia è stata l’episodio precursore della spettacolarizzazione di omicidi e vicende giudiziarie.
Oggi la tv si spinge più in là fino a sfociare nei reality estremi dove mettere in palio bambini, animali, verginità, le proprie esperienze traumatiche e un giorno, anche la propria morte sembra essere la cosa più naturale del mondo.
Un mondo impazzito?
Forse no. Forse la tv del dolore non nasce in quel lontano 1981, probabilmente l’attrazione verso il drammatico è qualcosa che ci appartiene più di quanto noi, pensiamo. L’attrazione dell’uomo verso la sofferenza è qualcosa che terrorizza, ma allo stesso tempo esorcizza la paura verso la stessa sofferenza e i propri drammi diventano al cospetto di quelli visti, un po’ più piccoli.
“ Ci troviamo con la nostra postazione sulla collina del Golgota, nei pressi di Gerusalemme, dove sta per essere giustiziato Gesù di Nazareth, per bestemmie contro la legge e attività sediziose. I colpi che potete udire sono quelli dei martelli che fissano i chiodi, attraverso le mani del condannato, al legno della croce. Il condannato, come udite, sta urlando…”(Domenico Campana- Il Giorno- 15/giugno 1981).
Raffaella Clementi