Ultima modifica 10 Novembre 2015
Il figlio è mio e lo posso chiamare come voglio io. I genitori hanno il diritto di dare ai figli il cognome che preferiscono, scegliendo tra quello della madre e del padre. E l’Italia si metta al passo con il resto d’Europa. A dirlo è la Corte europea dei diritti umani che ieri ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi avendo negato ai due la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre anziché quello del padre. Nella sentenza, definitiva tra 90 giorni, i giudici specificano poi che l’Italia ha il dovere di adottare riforme legislative o di altra natura per rimediare alla violazione riscontrata che rappresenta una discriminazione di genere.
Antefatto.
La vicenda comincia nel 1999 quando i coniugi milanesi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, si vedono impedire dallo Stato italiano di registrare all’anagrafe la figlia Maddalena con il cognome materno anziché quello paterno. Da quel momento la coppia si batte per vedersi riconosciuto il diritto alla scelta (necessario per perpetuare il patrimonio morale del nonno materno senza eredi).
Un paio d’anni più tardi, i coniugi provano con il tribunale di Milano, il quale risponde che, sebbene non vi sia alcuna disposizione giuridica in materia, questa regola corrisponde a un principio radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana. Nel processo d’appello, viene confermata la sentenza di primo grado. Ma la coppia non demorde e interpella Strasburgo facendo leva in appello sull’articolo 8 (diritto al rispetto per la privacy della vita di famiglia) e all’articolo 14 (che proibisce le discriminazioni) della Convenzione europea dei diritti umani.
Oggi la sentenza dà loro ragione anche se bisognerà attendere che lo stato italiano adegui l’ordinamento interno in tale proposito perché la famiglia possa attribuire ai figli il cognome materno.
Già in passato la Cassazione aveva cominciato questo percorso. Nel 2006 prima e nel 2008 poi la Corte Suprema ha stabilito che a seguito all’approvazione del Trattato di Lisbona, anche l’Italia, come tutti gli Stati membri, ha il dovere di uniformarsi ai principi fondamentali della Carta dei diritti Ue tra i quali il divieto “di ogni discriminazione fondata sul sesso“.
Ma mentre nel 2006 la Cassazione si era limitata ad un appello al parlamento affinché con una legge consentisse l’adozione del cognome materno, due anni dopo i magistrati di Piazza Cavour avevano detto di essere pronti a rimuovere, disapplicandole, o avviando gli atti alla Consulta, le norme italiane in contrasto con i princìpi del Trattato. Nel 2012 un’ulteriore svolta, nella direzione dell’aggiunta del cognome materno a quello del padre, ma non della sostituzione. Ma oggi non basta più e i giudici di Strasburgo nella loro sentenza sottolineano che tale possibilità non garantisce sufficiente eguaglianza tra coniugi. In particolare, i giudici sostengono che “se la regola che stabilisce che ai figli legittimi sia attribuito il cognome del padre può rivelarsi necessaria nella pratica, e non è necessariamente una violazione della convenzione europea dei diritti umani, l’inesistenza di una deroga a questa regola nel momento dell’iscrizione all’anagrafe di un nuovo nato è eccessivamente rigida e discriminatoria verso le donne”.
Bene, un passo avanti.
Elisa Costanzo