Ultima modifica 23 Maggio 2016
Lo sappiamo tutti molto bene: la nostra vita viaggia sempre più online, la tecnologia ha preso completamente il sopravvento sulle nostre abitudini, influenzando il modo di comportarci e relazionarci agli altri. Ricorriamo sempre più spesso ai social network per condividere tutto con i nostri amici.
Ed ecco che, ancora una volta, ritorno a usare la parola “condividere”.
Questa volta, però, la cito in funzione dell’utilizzo che ne facciamo quotidianamente sulle community, dove sta diventando uno dei termini più utilizzati. Ormai, si “posta” tutto perché l’importante è, appunto, “condividere”.
Allora, via libera a video, giochi, articoli, foto di piedi, piatti, gatti (sembra quasi un gioco di parole), pensieri, messaggi e, perfino, la telecronaca di un parto in diretta, l’ultima frontiera dei social.
Era, infatti, di qualche tempo fa la notizia di quella donna, Ruth Iorio, che aveva scelto di condividere col mondo intero la sua maternità.
Ormai, non mi sorprende più nulla, ma trovo che non esista più un filtro per cosa pubblicare o meno.
Non dovrebbe essere quella una delle esperienze più intime di una donna, tale da dover essere vissuta solo col proprio compagno/marito o con una persona amica e non con milioni di internauti? A che scopo pubblicare il video del parto? Vanità, desiderio di celebrità? E perché mai “affaccendarsi” a documentare ogni attimo di quel momento così delicato quando varrebbe la pena “goderselo” tutto per sé?
C’è poi un altro aspetto che ha destato la mia attenzione, ovvero la decisione di partorire in casa, scelta molto personale e discutibile, peraltro, non supportata dal nostro Sistema Sanitario Nazionale che – salvo alcune regioni – non ne sostiene i costi d’assistenza.
Proprio giorni fa, infatti, un gruppo di ostetriche della Regione Lombardia ha lanciato una petizione perché le donne possano poter scegliere liberamente il parto a domicilio, «senza costrizioni o condizionamenti di tipo economico e sociale». Già, perché nonostante siano parecchie le donne – al di là dei soliti nomi famosi – che preferiscono le mura domestiche, conosciute e confortevoli, a quelle di un comune ospedale, non tutte possono permetterselo. Resta ancora un lusso che si deve pagare di tasca propria.
Tuttavia, al di là dell’aspetto economico, mi sorge spontanea una domanda. Ma chi ce lo fa fare? Per quanto le condizioni di salute di una donna possano essere sempre state ottime, la gravidanza sia stata vissuta serenamente e non debba essere considerata una malattia, esattamente come il parto, l’imprevisto è sempre dietro l’angolo sia durante il travaglio, sia nella fase espulsiva. Perché, quindi, rischiare quando gli ospedali sono generalmente ben attrezzati? Certo, anche qui può succedere di tutto.
E poi, chi ha detto che le sale parto non siano accoglienti? Ormai, sono sempre più confortevoli, “calde” e ben lontane da quell’immagine asettica di sale operatorie.
Per carità, poi, ognuna è libera di scegliere come crede. È un’esperienza talmente importante nella vita di una donna che è giusto decidere più liberamente possibile È un diritto di tutte. È sì una questione di scelta, ma anche di assunzione di responsabilità e, personalmente, non mi metterei mai a ragionare sulla sicurezza di un parto in ospedale in cambio di soluzioni casalinghe.