Ultima modifica 18 Giugno 2018
Voglio riportare un articolo uscito su Repubblica a cura di Alessandra Ziniti e lo voglio fare, senza aggiungere nulla alle parole della donna che le ha pronunciate e della giornalista che le ha raccolte, perché ogni dettaglio aggiuntivo le svilirebbe.
L’articolo si intitola “Noi, mamme grazie alla provetta doniamo gli ovuli a chi ancora spera” e lo potete trovare anche qui.
Personalmente, trovo che sia una testimonianza bellissima dove la sorellanza fra donne può fare davvero la differenza tra una vita piena ed una vuota.
Buona lettura.
« Il mio è un semplice atto di amore e di solidarietà, da donna a donna. Perché un figlio non lo fa il 50 per cento del Dna, né il proprietario di un ovocita o di uno spermatozoo, ma l’amore di chi lo cresce giorno dopo giorno». Lucia la sua battaglia l’ha vinta. Giovanni e Maria Rita, i gemellini nati con la fecondazione assistita, hanno due anni e mezzo e lei si ritiene fortunata: le è andata bene al primo tentativo e, adesso che anche in Italia l’eterologa non è più un tabù, quegli ovociti, sani e “funzionanti”, che aveva congelato nei laboratori dell’Unità di medicina della riproduzione della fondazione Hera, a Catania, in vista di un percorso che avrebbe potuto essere più lungo e accidentato, ha deciso di donarli ad altre donne meno fortunate di lei.
«A me sicuramente non servono più, i miei bambini li ho avuti e sono pienamente appagata. Di ovociti congelati ne ho undici, cinque li ho donati alla ricerca e sei ad altre donne, perché credo che per una aspirante mamma che non riesce ad avere figli e decide di intraprendere questo percorso così duro non c’è niente di peggio che sentirsi dire da un medico: “Mi dispiace, lei non produce ovociti, non può neanche provare”». Quello di Lucia è un sentimento condiviso tra le tantissime donne, giovani e meno giovani, che nei medici, nei biologi, negli psicologi, nel personale dell’Unità di medicina della riproduzione di Hera hanno trovato la loro seconda famiglia. Tanto che l’invito del direttore Antonio Guglielmino a donare i propri ovociti congelati dopo che una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato legittima la fecondazione eterologa anche in Italia, ha trovato grande adesione. Anche da parte di chi, come Marzia, il suo bambino non è ancora riuscita ad averlo.
«Ho detto sì anch’io, sebbene i miei tentativi, che vanno avanti da sei anni, non sono andati a buon fine. L’ultima volta sembrava che andasse tutto bene e invece l’ovocita non è riuscito ad impiantarsi. Ne ho congelati tanti anch’io e ho deciso di donarne alcuni perché penso che se mi trovassi nelle condizioni di non poterne produrre, il sogno di avere un figlio sarebbe impossibile. Ci riproverò ancora, sapendo bene che corro il rischio di non farcela, mentre magari un’altra donna con il mio ovocita riuscirà a diventare madre. Eppure non penso che i bimbi che dovessero nascere da quegli ovuli sarebbero figli miei. Il figlio è della donna che lo porta nel ventre, e, anche se l’ovocita è mio, verrà fecondato dallo sperma di suo marito e sarà a tutti gli effetti figlio di quella coppia».
Vista dai corridoi ovattati di questo centro all’avanguardia, dalle stanze dove decine di coppie portano avanti con sofferenza, coraggio e grande forza di volontà un percorso durissimo, la fecondazione eterologa è una «conquista di civiltà» e l’annunciata contesa legale tra le due coppie vittime dello scambio di ovociti avvenuto in una clinica romana un errore da stoppare immediatamente. «Più che di errore parlerei di orrore» dice Lucia. «Ma poveri bambini, nascere sotto una disputa legale… Io capisco il dolore di tutti, ma nessuno può pensare di togliere quei bambini alla donna che li sta portando in grembo. Io, più che di maternità, parlerei di genitorialità. Lo dico chiaramente: se fosse stato possibile in Italia, avrei fatto ricorso anche all’utero in affitto. Mi auguro che un giorno anche qui ci sarà questa possibilità».
Lucia ha 32 anni, lavora al Monte dei pegni a Messina, e con suo marito Paolo, commerciante, ha condiviso sin dal primo momento queste scelte. «Spero che le conquiste sulla fecondazione assistita non si fermino. Negare la genitorialità è un abominio. Per questo sono favorevole all’ovodonazione e all’utero in affitto, nella serenità più totale che contraddistingue chi, come me, crede che i figli siano di chi li cresce e l’aspetto biologico lascia il tempo che trova. Il corpo umano è una macchina e, almeno per me, la gravidanza è stata come una malattia. Anche se oggi i miei meravigliosi bambini sono la mia ragione di vita, penso che non ripeterei più quello che ho passato, dal bombardamento ormonale a quello della mia psiche. L’unica cosa che ho chiesto donando i miei ovociti è che li abbia una coppia serena, che affronti questo percorso con consapevolezza. E poi sì, a me piacerebbe saperlo, se questo mio gesto un giorno dovesse dare frutto. Ed escludo di poter avere un giorno qualsiasi ripensamento o rimorso per un “figlio” mio donato ad un’altra».
Forse perché finora è andata incontro solo a delusioni, Marzia invece preferisce non conoscerlo il destino degli ovociti che ha donato. Operaia in una ditta di pulizie, sposata con un falegname, è da poco tornata al lavoro dopo l’ultimo tentativo andato male.
«Ma ho 32 anni e ci credo ancora. È vero, c’è sempre l’adozione, ma una donna si sente realizzata pienamente solo se diventa madre. Per questo, avendo la fortuna di produrre ovociti sani e in presenza di una legge che finalmente lo consente, voglio fare la mia parte. Non penso al fatto che io potrei non riuscire nell’impresa mentre un’altra donna, con un mio ovocita, sì: penso, semmai, alla delusione che proverei se, avendone bisogno io, non ci fosse nessuno a regalarmi questa possibilità. Mentre a quella coppia romana che avrà il bimbo “sbagliato” voglio dire: «Vivete questa gioia e amate questa creatura, è la vostra».
Raffaella Clementi