Ultima modifica 20 Giugno 2019
“Io mi ricordo, quattro ragazzi con la chitarra, e un pianoforte sulla spalla”…
Io me la ricordo, la mia notte prima degli esami.
Mi ricordo due amiche inseparabili che durante quella lunga e stranissima notte, quella che pensavano fosse una delle più importanti della loro vita, facevano finta di studiare. Ridevano e scherzavano facendosi coraggio e mettendosi ansia a vicenda.
Torno al presente, e guardo la notte prima degli esami di una diciottenne di oggi con cui condivido metà di quello che sono, mia sorella.
La notte prima degli esami è con i suoi amici, ride facendo finta di non avere paura.
Mi ha chiesto più e più volte se nascondendo in bagno il cellulare si riusciva a copiare 😛
Una generazione diversa con uno scoglio in comune, la maturità.
Affrontata nello stesso modo: stesso sorriso nervoso, sguardi preoccupati, stessa sfrontatezza e arroganza di quando hai diciott’anni e tutto sembra importante e futile insieme.
L’unica differenza concreta sono gli smartphone di oggi, che giacciono inutili e abbandonati sulle cattedre davanti ai professori che, sei anni fa come oggi, controllano con sguardo chi severo, chi partecipe e chi compassionevole gli alunni dall’aria assorta e disperata.
“Notte prima degli esami, notte di polizia (certo qualcuno te lo sei portato via) notte di mamme e di papà col biberon in mano, notte di nonne alla finestra, ma questa notte è ancora nostra”.
Questa notte non è nostra, è ancora mia, perché la maturità è uno di quei ricordi che non se ne andranno mai.
Quella sensazione di impotenza e senso di controllo insieme. Quella paura e incoscienza che viene dalla pancia, soffoca le emozioni e ti lascia vuota e incerta ad affrontare una delle prime vere prove, quelle che ti fanno diventare grandi.
Che poi grandi non si diventa certo superando un esame, ma a quell’età non lo sai e anche un pensiero così insensato ti sembra possibile.
La mia notte prima degli esami
Ricordo la mia incoscienza, quella che mi ha fatto arrivare in ritardo alla versione di greco e trovare le porte della scuola sbarrate e chiuse a chiave.
Sono state lacrime, panico e cuore che batteva impazzito finché la mia professoressa, impietosita, ha convinto la preside e spalancarmi il portone della scuola e del mio futuro. Prendere 15/15 di una versione di greco ha sempre la sua utilità, nella vita.
Ma ripensandoci è vero, questa notte è ancora nostra, è mia, è di mia sorella che in un’altra città ha affrontato le mie stesse paure con la stessa palpitazione.
Ha sentito il cuore fermarsi mentre leggevano le tracce dei temi, ha incominciato a scriversi senza fermarsi per ore e ore, fino a che, stordita, non ha messo il punto a un tema così impegnativo da essere tranquillamente dimenticato due ore dopo.
Chissà se anche lei ha dovuto estrarre a sorte la lettera dei primi sfortunati interrogati della classe, il terrore di autocondannarsi, il sospiro di sollievo nel vedere estratta la lettera G, gli sguardi d’odio dei compagni sorteggiati.
“Notte di sogni di coppe e di campioni, notte di lacrime e preghiere, la matematica non sarà mai il mio mestiere”.
Che la matematica non sia la mia professione si era capito da tempo.
E la mia unica preghiera nella stramaledetta terza prova, il cosìdetto quizzone, era che ci fosse fisica in modo di avere qualche possibilità di cavarmela. Guardo mia sorella, che implora tutti i santi e mi chiede di pensarla intensamente “perché domani in seconda prova ho matematica, e o copio o sono fregata”.
Guardo il ripasso terrorizzato della sera prima, e sorrido ripensando al mio studio matto e disperatissimo.
Alla mia tre giorni non-stop prima della terza prova, con 35 gradi, la gatta sulle ginocchia immersa negli appunti di Quintilliano e Svetonio perché lei, mia fida scudiera, non voleva abbandonarmi da sola in quel difficile frangente.
Ricordo un orale alle 7 e 45 del mattino con un solo testimone (non proprio legalissimo, lo so). Ricordo la paura di sedermi su quella sedia con sette professori intorno. La testa che inizia a andare per conto suo e un unico pensiero fisso, mentre la lingua sciolta parte da sola e procede senza impedimenti “Venti minuti, devo resistere venti minuti e sarà tutto finito”.
Una domanda trabocchetto che mi farà odiare la scienza della terra e le stelle per tutta la vita. Ricordo il sorriso del mio professore di filosofia mentre mi fa la domanda che non mi aspetto e a cui rispondo perfettamente. La delusione a fine colloquio quando scopro che il cento mi è scivolato tra la dita per un solo punto, le lacrime nervose e liberatorie.
Eppure, se potessi, tornerei indietro dieci, cento, mille volte.
Perché la maturità mi ha regalato ricordi indelebili e straordinari.
Un’amica che si alza ubriaca alle sei del mattino per starmi vicino. Un professore che mi abbraccia e mi fa capire la sua stima. Mille piccole sensazione ed emozioni che rimangono sotto pelle e non se andranno mai.
Per questo guardo mia sorella e sorrido, lei non capisce e pensa che la stia prendendo in giro, mi lancia un portapenne volante urlandomi contro.
Me lei non sa, non sa che questa notte è ancora nostra, mia e sua.