Ultima modifica 20 Giugno 2019
Guardando i bambini correre per strada travestiti per Carnevale, ho pensato a chi la maschera se la porta dietro, nella borsa o in tasca, un po’ tutto l’anno, per indossarla quando ce n’è bisogno.
Non parlo delle maschere della falsità e nemmeno di quelle maschere che ridono usate per coprire due occhi tristi.
Non parlo di quelle maschere, ma di altre di cui non si parla quasi mai.
Forse perché più rare, più complicate.
Quelle maschere che servono a coprire l’ “assenza”, la “lontananza”.
Per far sembrare vicini, ancora qui, due occhi che in realtà sono lontani, già altrove.
Sono le maschere che usano quelle persone che quando sono sole vanno troppo a fondo nei loro pensieri tanto che quando stanno con gli altri fanno fatica a raggiungerli in superficie.
E sono costrette ad ascoltare le conversazioni distese sul fondale, cercando di partecipare anche se le parole arrivano alle loro orecchie ovattate dall’acqua.
Quelle persone destinate a perdere continuamente il filo dei discorsi nel labirinto dei propri pensieri e costretti a nascondere il fatto di averlo perso sorridendo a comando, quando gli altri sorridono.
Si, a comando.
Come delle macchine.
“Le macchine che sorridono iniziano a farmi schifo” mi ha detto, qualche giorno fa, un amico.
“Ma dove le vedi?” gli ho chiesto io, guardando confusa i parabrezza delle auto.
“Nelle persone”.
Le macchine che sorridono, mi ha spiegato, sono all’apparenza persone a tutti gli effetti, ma poi se gli sbirci dentro ti accorgi che sono fatte di metallo, circuiti e ingranaggi che girano.
Sorridono ma lo fanno in modo meccanico, non per davvero.
A lui iniziano a fare schifo.
Io, invece, un po’ li capisco.
Perché la socialità, in fondo, non è che un teatro che ci rende inevitabilmente attori.
Anche se non è mai stato scritto, vi è comunque un copione sottinteso che ci condiziona: frasi fatte, momenti in cui bisogna dirle, momenti in cui bisogna sorridere.
E chi si accorge di questa messinscena, chi ha il privilegio di scendere dal palco per vedere che tutto è solo una montatura, non può fare a meno che diventare una macchina.
Una macchina che sorride.
Una macchina che sorride quando gli altri sorridono, per far sembrare i suoi occhi ancora qui, vicini e nascondere che invece sono già altrove, lontani.
Assenti.
“ […] anche in mezzo alla conversazione, […] io sono il più assente di quel che sarebbe un cieco e un sordo. Questo vizio dell’assenza è in me incorreggibile e disperato”, scrive Leopardi, per cui l’ “assenza” è addirittura un vizio.
Un vizio che chi ce l’ha ne farebbe anche a meno, così da riuscire a godere finalmente anche di quelle conversazioni più superficiali.
Senza doverle ascoltare con la schiena appoggiata sul fondale, con le orecchie che si riempiono di acqua e pensieri.
Anche io sono una macchina che sorride quelle volte in pizzeria, quando le altre parlano e io sono ferma con la mente ad un dettaglio, ad una parola che loro hanno superato già da un po’.
Quando poi voglio raggiungerle mi accorgo che mi sono persa e che è troppo tardi.
L’unica cosa che posso fare è quella di fingere di essere ancora li mentre sono altrove.
E allora cerco di ignorare il cigolio degli ingranaggi che dentro me hanno preso il posto alle arterie e capillari.
E finisco per mostrarlo anche io.
Un sorriso meccanico.
Miriam Santimone