Ultima modifica 18 Aprile 2015
Abbiamo chiesto ad una delle protagoniste della trascrizione dei matrimoni omosessuali di sabato scorso in Comune di scriverci due righe, di parlarci delle sue impressioni, dei suoi pensieri, perchè è giusto sapere, ascoltare, capire.
Altro che autografi e scarabocchi…
Le riflessioni di una delle protagoniste della trascrizione matrimoni omosessuali in comune a Roma, sabato 18 ottobre
Sabato 18 ottobre è stata una giornata memorabile, in cui mi sono emozionata più di quanto potessi immaginare. Più che il giorno del matrimonio: a quello ero preparata, e poi eravamo solo una quindicina di persone, noi, le testimoni, i nostri genitori e un’amica in rappresentanza di tutti gli altri.
Qui la situazione era completamente diversa.
Innanzitutto eravamo a Roma, a casa nostra. È un legame viscerale quello con questa città, indifferente e affettuosa, cinica e “de core”, metropoli e paesino. È la mia città, la odio e la amo, non so davvero se potrei mai lasciarla come vagheggio a giorni alterni.
E dunque il Sindaco della mia città ci invita nella sala più importante del palazzo più rappresentativo dell’istituzione che rappresenta. 16 coppie omosessuali sposate all’estero avrebbero visto trascritto il proprio matrimonio sul Registro dello Stato civile del Comune di Roma. Ogni coppia ha potuto invitare 10 persone, eventuali figli inclusi. Noi portiamo i nostri due figli, di 8 e 2 anni, i nostri genitori con i rispettivi coniugi, e due carissimi amici.
Sei delle altre coppie le conosciamo da anni: fanno parte di Famiglie Arcobaleno, l’associazione di genitori omosessuali che abbiamo fondato 10 anni fa insieme a una dozzina di coppie (una delle quali è tra le 16 di oggi), e che conta ormai diverse centinaia di famiglie con e (ancora) senza figli. In questi anni di battaglie politiche e di crescita personale con molti di loro sono nate delle bellissime amicizie. Abbiamo sofferto insieme ai tentativi di fecondazione andati male, gioito insieme a ogni nuova nascita, festeggiato insieme i nostri matrimoni, ci troviamo ai compleanni dei nostri figli e anche ai nostri. Essere lì, in quella sala storica, alla presenza del Sindaco e dei nostri cari, e condividere questo momento epocale proprio con loro ha moltiplicato la mia emozione in maniera esponenziale, avevo la sensazione che la sala fosse satura della nostra felicità come di un gas in espansione che fagocitava ogni altro elemento con cui veniva in contatto.
Il luogo, la compagnia, il significato: quest’ultimo è il terzo motivo che ha reso speciale quel giorno.
È una cosa che sapevo già razionalmente, ma che sperimentai davvero in prima persona soltanto quando il Registro Civile di Barcellona ci disse che, sì, potevamo sposarci. Quel giorno stesso mi sentii il cuore gonfio di orgoglio quando potei definire Monia “mi pareja”. Lo era anche prima: lo era per me da più di 10 anni, e così per la mia famiglia e i miei amici. Ma è diverso, completamente diverso quando un’istituzione pubblica riconosce il valore della tua relazione di coppia: esattamente come lo stigma sociale reiterato può farti sentire inadeguato, così l’approvazione e il pubblico riconoscimento ti fanno stare meglio, è ovvio e inevitabile, al di là della nostra volontà. Perché l’idea che ci facciamo di noi stessi dipende anche dall’immagine che la società ci rimanda come uno specchio (peccato soltanto che talvolta, specialmente da giovani, non sappiamo riconoscere gli specchi deformanti).
Dunque l’immagine che ci rimanda oggi la massima autorità cittadina è un’immagine bella e positiva, fedele al nostro più profondo sentire.
Ma. C’è un ma. La strada da fare è ancora tanta. La parità per le persone e le coppie omosessuali, la piena tutela per i nostri figli è confinata in un bacino d’acqua bloccato da una diga. Quella diga comincia a cedere, su quella parete si è aperta qualche falla. I tentativi di opporsi all’inevitabile sono a volte scomposti come gli spasmi di un moribondo, a volte goffi come i passi di chi volesse passeggiare a via del Corso con le pinne da sub. Hanno tutti in comune l’essere vani, come lo è la pretesa di fermare la falla infilandoci un dito.
È solo questione di tempo, e la diga si aprirà definitivamente. Ma io, noi, non disponiamo di un tempo infinito. Vorrei che il matrimonio con mia moglie fosse valido, con effetti giuridici nell’ordinamento italiano, già oggi. Vorrei che i figli che sono nati dal nostro normalissimo desiderio di genitorialità e che stiamo crescendo insieme facendo del nostro meglio fossero già oggi figli miei anche davanti alla legge, e quindi tutelati sul piano affettivo e patrimoniale esattamente come tutti gli altri bambini.
Per accelerare il crollo della diga bisogna aprire tante piccole falle sulla sua parete. Noi genitori omosessuali lo facciamo continuamente, non perché siamo esibizionisti o perché vogliamo ostentare chissà cosa, ma perché la piena visibilità è l’arma principale della nostra battaglia politica. Ogni volta che mi mostro nella mia interezza, ogni volta che parlo di mia moglie o dei miei figli, ogni volta che non mi nascondo apro una nuova piccola crepa su quella parete.
Ma anche voi, amici eterosessuali, avete lo stesso potere: ogni vostra manifestazione di sostegno, affetto e solidarietà è un’altra piccola crepa.
Sarà che sono ancora stordita dalle emozioni di sabato e dal trambusto mediatico che ne è seguito, ma ho la netta sensazione che le cose stiano davvero cambiando.
Non abbassiamo la guardia, ora meno che mai, e diamoci da fare insieme per far crollare questa diga.
Costanza Tantillo