Ultima modifica 4 Maggio 2018
Sto uscendo dalla stanzetta in penombra col mio carico di pensieri.
Sono talmente tanti che non riesco a dar loro un ordine preciso.
Che mi hanno detto? Cosa è successo?
L’unica cosa che ho davvero compreso è che è finita.
Basta, io non sono più madre. Anche se la mia pancia ancora sporge, io non sono più madre.
In effetti non so nemmeno se lo sia mai stata: da quale momento si diventa madri?
Poso gli occhi sulla mia pancia e mi accorgo che non posso più guardarla.
Veramente, non sono più una madre, mi sono trasformata in una tomba.
Là dentro mio figlio è morto.
Chissà come, chissà da quanto.
Per quanto tempo mi sono creduta madre e invece ero già tomba?
Perché? Come è possibile che i figli muoiano ancora prima di nascere?
Cosa ho fatto, o non ho fatto, che ha causato la sua morte?
Perché io? Cosa ho io che non va?
Mi guardo intorno e vedo solo passeggini pieni, pance grandi, mamme felici.
In quel cartellone pubblicitario una mamma, esile come una piuma, sfoggia sicura il tacco a spillo, avvolta in un cappottino chiaro dal lembo svolazzante, sembra attraversare il selciato con leggerezza, come con leggerezza e facilità attraversa la sua vita, mentre spinge la carrozzina con una sola mano.
In TV passa uno spot che racconta quanto sia facile avere un bambino: basta comprare uno stick, aspettare la faccina che ride e il gioco è fatto.
Devo proprio essere io ad avere qualcosa che non va, perché è evidente quanto vada bene sempre, eccetto a quelli difettosi, come me.
In giro le persone mi chiedono quando arriverà il pargoletto…
E’ arrivato – rispondo – morto.
Restano tutti impietriti, serrano le labbra, abbassano lo sguardo e cambiano discorso.
Eh già, meglio non proseguire oltre, che potrebbero dire?
Non sono stata capace di farlo nascere vivo, non c’è nulla di cui parlare, semmai dovrei vergognarmi: che razza di madre sono? Non sono riuscita nemmeno a proteggerlo quando era dentro di me, figurati se sarei stata capace di proteggerlo fuori da me.
Finché arriva la sentenza: perché sia morto, non si sa.
E’ morto, accade, molto più spesso di quanto ci dicano, lo ammette il medico che mi guarda rassicurante, mentre mi porge i fogli nelle mani.
Non c’era nulla che potessi fare. Non si può prevedere. Accade e basta. Come accade che sopraggiunga una malattia genetica incompatibile con la vita, come accade che un nodo del cordone sia letale, come accadono altri e tanti imprevisti che mettono fine alla vita nel grembo materno.
Quanto? Quanto spesso accade?
Oh beh… dipende.
“Lei ha due figli vivi e due morti: il 50% delle sue gravidanze è andato a buon fine. E’ un buon risultato.”
E’ un buon risultato.
Guardo i figli vivi e penso a quelli morti: non ho fatto nulla di diverso per nessuno di loro.
Ho sempre seguito le indicazioni, assunto acido folico, rallentato, eseguito i controlli…
Ho fatto il possibile, sempre.
Ho fatto quel che fa una mamma, sempre.
In effetti io sono solo una mamma. Posso impegnarmi per fare il possibile, sul resto non ho controllo, perché sono umana.
Santo cielo! Sono solo umana.
Non ho potere sulla vita e sulla morte, nemmeno dei miei figli.
Eh sì, sono i miei figli, tutti. Fin dal primo pensiero, fin da quando sono stati più piccoli di un puntino.
Eh sì, ho fatto sempre quel che fa una mamma: li ho accolti, protetti e tenuti, con me, fin dove la mia umanità mi ha concesso.
Poi li ho lasciati andare, nel mondo o in un buco, sotto terra.
Eh no, io non ho mai indossato i tacchi a spillo, che dalle mie parti il selciato è accidentato.
Raramente ho condotto la carrozzina con una sola mano, che più spesso ho preferito tenerla salda con entrambe…
La mia vita non è sempre facile, perché è una vita vera e difficilmente campeggerà su un cartellone in mezzo alla strada.