Ultima modifica 28 Aprile 2021
Qualche volta è per un guizzo di curiosità, altre è solo per un eccesso di zelo rispetto alla possibile spazzatura che potrebbe stazionare indisturbata. Altre ancora è perché un campanello di allarme ci suona nel cervello ma capita a tutti di sbirciare nello zaino dei nostri figli adolescenti.
Non sappiamo bene cosa ci spinge a farlo ma non possiamo farne a meno.
Nella maggior parte dei casi non troviamo nulla di sospetto, ma qualche volta le sorprese sono dietro l’angolo. Se ci va bene è un pacchetto di sigarette celato nell’angolo più remoto. Quando va male è un residuo di qualche sostanza stupefacente o un preservativo. Se ci viene un attacco di panico è perché abbiamo scovato dei sacchettini di plastica contenenti una sostanza strana e sconosciuta (davvero? a qualcuno non ricorda le mattane del passato?) magari accompagnata da attrezzature per pesarle o tagliarle.
Ecco. In quel momento ci cade il mondo addosso.
In queste situazioni (che accadono, credetemi) tre sono le fasi che si susseguono una dopo l’altra.
La prima è l’istinto omicida.
“Io lo uccido” è il pensiero primario che (fortunatamente) passa abbastanza in fretta.
Il nostro istinto genitoriale, infatti, si salva con il vecchio adagio che ci propinavano i nostri genitori (“Io ti ho fatto, io ti distruggo” declinato in ogni forma dialettale) ma la ragione prevale
La seconda è il senso di colpa.
“Dove ho sbagliato?” ci potremmo chiedere mentre siamo indecisi se fare finta di niente o se affrontare di petto la situazione. Perché il meccanismo di mettere in discussione il nostro stile genitoriale e di assumerci le responsabilità al posto dei nostri figli è sempre dietro l’angolo. Come se loro non avessero il libero arbitrio e non potessero decidere in modo differente da quello che noi vorremmo.
La terza è caratterizzata dal
senso di impotenza.
“Cosa faccio adesso?” ci domandiamo con il panico che ci assale.
Questa è la fase più importante, quella sulla quale è meglio soffermarsi il più ragionevolmente possibile per evitare danni.
La prima cosa da fare è mettersi a parlare con i nostri figli, renderli partecipi del fatto che li abbiamo scoperti e che non siamo disposti a stare fermi.
Chiarendo loro che da questo momento in poi saremo noi a dettare le regole.
Perché un problema c’è, su questo non abbiate dubbi.
E non lasciamoci tranquillizzare dalla prima risposta che riceveremo da colpevoli ma angelici adolescenti.
“Quella roba non è mia. L’ho conservata per un mio amico che non poteva tenerla. E se non la restituisco sono guai”. Intendiamoci: in una piccolissima percentuali dei casi questa potrebbe anche essere la verità. Toglie un po’ il peso di ulteriori potenziali pericoli ma non elimina il problema.
Che senso di responsabilità ha un ragazzo che non si rende conto della gravità del “detenere sostanze stupefacenti” (questo è il reato per cui sarebbero imputabili se le forze dell’ordine effettuassero una perquisizione come avete fatto voi) in nome e per conto di qualcun altro? E che tipo di compagnie frequenta se ha “amici” che gli chiedono di fare loro un favore di questo genere?
Ma questa – ripeto – è la situazione meno grave.
Come fare a capire se la giustificazione non è una balla colossale utilizzata per salvarsi in corner appellandosi all’ingenuità condita di amore che attribuiscono a noi genitori?
Intanto non sottovalutando la situazione, perché potrebbe essere anche così semplice ma potrebbe nascondere problematiche più grandi che (se non affrontate) rischiano di diventare pericolose. Molto pericolose.
Innanzitutto fermare le bocce. Mettere i nostri figli all’angolo ed effettuare un controllo a tappeto. In primo luogo del cellulare: scorrere le chat di WhatsApp o di altri social per verificare se ci sono messaggi compromettenti. E poi scandagliare con la memoria eventuali repentini cambiamenti di umore dei nostri figli, le loro frequentazioni, le amicizie lasciate o trovate, i buchi temporali o i rientri ritardati rispetto al coprifuoco che abbiamo loro imposto. Insomma: bisogna capire se le loro abitudini si sono modificate o se il loro stile di vita non è più lo stesso che avevano in precedenza.
E poi nome e cognome dell’amico (o presunto tale) a cui avrebbero fatto il favore.
Per capire chi è, che ruolo ha nella vita di nostro figlio, quanto è importante per lui. Perché comunque (anche se non si tratta di nostro figlio, e questo ci rende più leggeri) siamo di fronte a un adolescente potenzialmente in difficoltà e non possiamo chiudere gli occhi e voltarci dall’altra parte.
Se la versione ufficiale sembra essere credibile (ma analizziamola in tutte le sue sfaccettature, senza farci sopraffare dal sollievo per esserci sbagliati, che spesso altro non è che un meccanismo difensivo determinato dalla fase 2) non basta una strigliata.
Nostro figlio non ha dimostrato capacità di discernimento tra il bene e il male e ha perso la nostra fiducia. E dovrà sapere che per recuperarla gli occorrerà molta fatica.
Purtroppo non sempre (anche se, voglio tranquillizzarvi, accade in una percentuale migliore) l’alibi è credibile. E allora si apre un doppio problema perché nostro figlio si sta trasformando in un pusher (si spera alle prime armi) e si è fatto coinvolgere in un giro che lui crede di poter gestire se, come e quando vuole ma che, purtroppo, gestisce lui.
Perché lui è quello che si definisce un pesce piccolo, una vittima di un sistema più grande di lui che non esiterebbe a sacrificarlo per sopravvivere.
Ma come si è fatto coinvolgere?
Due sono le possibilità. La prima è che abbia annusato la possibilità di guadagnare soldi facili (complici alcuni modelli, spesso musicali, che la raccontano come una cosa semplice) senza farne uso lui stesso. La seconda è che sia un consumatore e gli sia stato proposto di continuare ad esserlo in modo gratuito pareggiando i conti con lo spaccio.
Sì, spaccio. Di questo si tratta. In entrambi i casi.
Solo che nel primo caso manca l’aggravante della dipendenza. Insomma, è abbastanza chiaro a tutti: se ho bisogno di trovare un modo facile per procurarmi lo sballo è perché ne ho bisogno. Non da un punto di vista fisico, magari. Ma certamente da un punto di vista psicologico o sociale.
Dunque, che si fa?
Se il nostro “geniale” figlio ha deciso di intraprendere una carriera per guadagnare in modo semplice (al netto di farci grandi domande su quali valori ha introiettato tra quelli che abbiamo cercato di trasferirgli) la soluzione può essere anche solo di tipo educativo. E credo che tutti siamo in grado di trovare la strada migliore.
Ma se il problema è anche la dipendenza (minimale o importante che sia) da soli non ce la si può fare. Occorre chiedere il supporto di specialisti.
I passi da fare sono importanti ma faticosi.
In primo luogo rivolgersi alle forze dell’ordine. Accompagnare il proprio figlio a consegnare spontaneamente la merce che detiene sicuramente giocherà a suo favore, soprattutto in virtù del fatto che sarà chiaro a tutti che si tratta di un pesce piccolo e che vuole collaborare. Ma questo implica la partenza di un percorso di tipo penale e di recupero.
Sono parole grosse, lo so. Ma la legge italiana è chiara: sopra a un certo quantitativo non si tratta più di “quantità per uso personale” ma di “spaccio”. E il Decreto attuativo dell’11/06/2006 del Ministero della Salute ce lo racconta in modo preciso.
Per fortuna il diritto penale minorile è concentrato sul recupero degli adolescenti e parte dal presupposto che l’errore commesso sia recuperabile. Che si tratti, insomma, di un momento di debolezza determinato dalla fase evolutiva che si sta affrontando.
Questo però è un tema molto delicato che va affrontato solo con chi eventualmente ne è direttamente coinvolto perché non può essere raccontato in un articolo.
Se qualcuno avesse bisogno di approfondire il tema non esiti a scrivermi. Io sono qui.