Ultima modifica 9 Novembre 2018
Quando ero una ragazzina la frase che odiavo di più sentire dagli adulti era “ai miei tempi le cose erano diverse”…
E devo dire che, nonostante non sia più una ragazzina, queste parole ancora mi disturbano. Perché trovo sciocco fare paragoni fra epoche diverse.
Mai nella storia dell’uomo le cose sono rimaste a lungo sempre le stese.
Si chiama evoluzione.
Cambiamento.
Progresso.
Ma parlare di come siano diverse le mamme di oggi da quelle di una volta tende a portare al paragone.
Perché quando mia mamma aveva me piccina, inutile dirlo, erano tempi diversi.
Ai suoi tempi la società non era quella di oggi. Anzi era decisamente diversa.
Meno internet, cellulari e tutto quello che ci ruota attorno. E non è poco.
Perché oggi sembra invece che tutto, o quasi, ruoti intorno al mondo virtuale.
E’ anche vero, però, che le cose di cui dobbiamo preoccuparci sono le stesse.
Lei si preoccupava di sapere dove ero e con chi.
Niente cellulare?
Bisognava lavorare sulla fiducia, sul rapporto madre-figlia.
Ma oggi è tanto diverso?
Hanno il cellulare e puoi sapere sempre dove sono? Certo se lo tengono acceso.
Si si possono istallare applicazioni con il gps e forse un domani microchip sotto la pelle ma credo ancora sia più sano lavorare sul rapporto e sulla fiducia.
Ci provo ogni giorno con il mio nano ormai non più tanto nano ma quasi dodicenne.
Gli do un pezzo di fiducia ogni giorno, un po’ alla volta. E spero.
Mi preparo alle serate in attesa del suo rientro ( oh fra qualche anno va bene la fiducia ma l’incoscienza anche no eh ), alla porta chiusa della sua camera, alla ragazzina di turno dietro la porta chiusa.
No in fondo non siamo così diverse.
Sia io che mia madre prima di me ci preoccupiamo per le stesse cose.
Ma devo ammettere che una differenza macroscopica la vedo a livello generale.
Per assurdo abbiamo più strumenti per tenerli sotto controllo, per sapere anche ciò che non dovremmo sapere eppure li conosciamo poco.
Si passa poco tempo insieme di qualità. Poco dialogo vero.
E viene fatto molto poco di quel lavoro vero e proprio che è la costruzione di un rapporto genitore-figlio. In cui non si molla mai. Ma proprio mai.
In cui si fa fatica, ci si interroga continuamente se si sta facendo la cosa giusta e soprattutto la cosa più importante: non si delega ad altri la responsabilità di una difficoltà o di un fallimento.
Niente scuse su la società malata, la professoressa che non lo capisce, il mister di calcio che non sa allenare, fa il bullo ma era solo uno scherzo, la ragazzina si è suicidata ma è lei che ha esagerato.
E’ proprio un atteggiamento che si sente spesso nella cronaca al telegiornale, nel parchetto o a bordo campo. E lo confesso, lo sopporto davvero a fatica.
Anzi non lo sopporto proprio.
Questo assurdo e superficiale modo di pensare per cui non ci si assume mai la responsabilità dei propri errori o fallimenti.
Né il genitore li ammette
né il figlio li sa accettare.
Quindi perché stupirsi di genitori che menano gli insegnanti e ragazzini bocciati che si lanciano dalla finestra della scuola?
In questo vedo il più grande cambiamento fra la mia e la generazione di ora.
Il non saper fare un po’ di sana autocritica.
Non saper accettare il fallimento non come una sconfitta definitiva ma un punto da cui ripartire.
Però una cosa ci tengo a dirla. E’ un’impressione generale. Ma non per tutti.
Ci sono tanti bravi genitori, che lottano ogni giorno.
Che si pongono domande e accettano anche risposte che mettono in crisi.
E tanti ragazzi pieni di voglia di fare, di cambiare le cose.
Smettiamola di generalizzare sempre o etichettare tutta una generazione e proviamo a guardare al futuro con energia e positività.
La rassegnazione passiva a quello che non funziona non ci ha mai portato da nessuna parte. Se non verso il basso.