Ultima modifica 28 Aprile 2021
Come ogni domenica sono a pranzo dai suoceri.
Un rito familiare che piace a tutti noi, di ogni generazione. Dalla nonna bis di 98 anni (che ci seppellirà tutti) all’ultima bis nipote di 13 anni, tutti quanti non vediamo l’ora di questo appuntamento che ha il sapore della tradizione mista allo scambio intergenerazionale con i nuovi linguaggi da nerd e le ultime tendenze in fatto di social(ità).
Finisce il pranzo e, dopo aver sparecchiato e sistemato la sala da pranzo, mentre fumo la sigaretta di fine pasto (lo so, non è educativo, ma qualche vizio bisogna pure averlo) mi ritrovo – come al solito – in giardino circondato dai nipoti che (mannaggia alla vanità da educatore) cercano spesso con me un confronto su una marea di temi e argomenti. Perché avere uno zio che fa l’educatore a volte è una dannazione. A volte invece una risorsa.
Oggi (nemmeno mi ricordo come) ci si ritrova a parlare di abbigliamento.
Il nipote, quello quindicenne, racconta di quanto le ragazze siano attratte dai compagni di scuola che vestono alcuni brand importanti mentre lui (non certo abbigliato al mercatino delle pulci, con le sue scarpe Nike e la t-shirt Calvin Klein) osserva da lontano il successo dei suoi coetanei.
Perché la domanda di oggi, subdolamente introdotta dal sottoscritto, è “Come si fa a trovare una ragazza?”
Il quindicenne imberbe mi guarda sornione e limpidamente mi racconta che per avere successo (al netto di una sorta di stalkeraggio innocente su Instagram per capire gusti e preferenze dell’ambita preda) bisogna puntare sull’abbigliamento.
Mi snocciola un elenco di brand importanti (con tanto di cifre altrettanto importanti per acquistarne i capi) che determinerebbero il successo con l’altro sesso.
In un nanosecondo mi viene in mente un video visto qualche giorno fa su Facebook. Una sorta di intervista, in una location che mi sembra Corso Vittorio Emanuele a Milano, ad una serie di adolescenti chiamati a narrare ciò che indossano. Con i relativi costi.
Ragazzi, tra i 13 (tredici!) e i 19 anni, che descrivono ciò che indossano ponendo più importanza ai prezzi piuttosto che al valore, in termini di gusto “personale”, di ciò che hanno scelto come abbigliamento.
Parliamo di un budget compreso tra i 900 e i 4000 euro per un semplice outfit quotidiano.
Scarpe, pantaloni, t-shirt, felpe, cinture, orologi da far invidia a un manager. Con una domanda che mi risuona nella testa come una campana tibetana.
Ma i loro genitori sono disposti a spendere così tanto?
Ma soprattutto: perché?
Intendiamoci: so perfettamente che per un adolescente l’immagine (come metafora del sé) è importante quasi più della propria individualità. Che l’omologazione (intesa come riconoscimento di sé) con il gruppo diventa il modo attraverso cui si costruisce (per assonanze e differenze) la propria identità.
Questo meccanismo non è poi così differente da quello che ha investito me (e tutti i miei coetanei) negli anni ’80 all’epoca dei paninari.
Ricordo quanto un paio di Burlington (che sono delle calze, per chi non lo sapesse) o un jeans Stone Island decretassero il successo (o l’insuccesso, in caso di assenza) nel gruppo.
Come a dire che oggi non sia così diverso da trent’anni fa.
Perché il meccanismo, in fondo, è sempre il medesimo. Di generazione in generazione.
La costruzione della propria identità personale, in adolescenza, avviene attraverso due meccanismi: l’omologazione o la differenziazione.
I modelli sono di due tipi: qualcosa da imitare o qualcosa da cui allontanarsi. Il vecchio adagio filosofico delle assonanze e delle differenze.
Solo in questo modo l’adolescente può trovare la giusta strada per costruire il proprio sé.
Resta solo da capire se e quali sono i modelli da prendere come esempio. La sostanza o l’apparenza? Perché è qui che si gioca tutto.
Gli adolescenti di oggi si (pre)occupano più dell’immagine o del contenuto?
E noi adulti quali quali modelli siamo in grado di offrire loro?
I ragazzi di oggi sono più Chiara Ferragni o Martin Luther King?
Questa è la domanda che, noi adulti, dovremmo porci. Preferiamo proporre modelli che si occupano dell’immagine o che, invece, incarnano valori e scelte?
Ma, soprattutto, quali sono i modelli che abbiamo noi? Quanto ci identifichiamo in Chiara Ferragni (o chi per essa) o in qualcuno che propone valori e contenuti di senso?
Perché, alla fine, i ragazzi altro non fanno che osservarci e decidere che strada prendere.
E siamo così sicuri che i modelli che affollano i social con la loro immagine non abbiano una sostanza da proporre?
Io, rispetto al ragazzo vestito di banconote rosa proposto qualche riga più in alto, qualcosa da dire l’avrei. Che se puntasse più alla sostanza che all’immagine (come sono certo potrebbe fare per quello che ho visto) ne guadagnerebbe.
Ma, forse, anche lui è schiavo di un sistema?