Ultima modifica 20 Giugno 2019
Non sono mai riuscita a parlare inglese. Il fatto che un termine abbia 13 significati diversi a seconda del contesto e che, con una micro-sfumatura ne acquisti altri 7, mi blocca. E’ una mia difficoltà oggettiva che non riesco a superare nonostante io abbia studiato per una vita senza problemi.
E mi dà fastidio, dal momento che mi ha reso e mi renderà difficile qualche situazione anche lavorativa.
Una sciocchezza in confronto ai bambini che ogni giorno vengono a scuola con ben altri crucci; bambini che ogni giorno devono affrontare, con la mente, montagne a mani nude. Scrivere, leggere, contare a mente, studiare e riferire: ogni bambino che guardiamo negli occhi al mattino ha un bisogno educativo che deve diventare normalmente speciale.
Ogni bambino che entra a scuola al mattino deve poter imparare insieme agli altri e, quindi, sta a noi insegnanti imparare ogni metodologia, scovare tra le conoscenze ogni strumento che sia il più possibile valido per tutti.
Un motivo di fondo c’è, per questo.
Il bambino con difficoltà oggettiva in una delle sfere di competenza (scrittura, lettura, calcolo o memorizzazione a breve o a lungo termine) ha un pensiero invasivo: “non riuscirò in niente”. Non è capace, infatti, da solo a restringere il campo oggettivo della sua difficoltà e quindi, molto spesso, la frustrazione allaga impietosamente ogni attività.
Per creare argini a questo problema oggettivo, noi insegnanti non possiamo fare le psicologhe, ma, abbiamo, appunto, l’ unica possibilità vincente: utilizzare strategie che agevolino tutti, che creino una rete di aiuto in classe e che siano condivisibili dal gruppo.
Provarle tutte, parlare, disegnare ciò che si dice, scrivere le idee che arrivano dai bambini, cercare video stimolanti, farli lavorare insieme, fidarsi di loro e di quello che possono fare per i compagni; percorrere insieme ogni strada, questo aiuta tutti e ognuno può trovare la sua.
In terza abbiamo affrontato la risoluzione dei problemi, dopo tante letture ad alta voce, chiudendo gli occhi e immaginando la situazione per poi disegnarla a piacere; perché l’immaginazione è un canale per imparare e risolvere (Bruno D’Amore docet). Tutti potevano farlo perché non serviva scrivere, non serviva leggere, non serviva contare. Certo che si faceva un problema invece che tre. Però vederli tutti in pista alla pari è stato una conquista per tutti.
Solo così, con la testardaggine di farlo ogni giorno, si può vincere di un gradino alla volta la loro insicurezza, perché pian piano riescono ad isolare la loro difficoltà oggettiva ad una sola competenza e a far volare le altre. Se, poi, a tutto questo, si aggiungono genitori “normalmente” speciali, allora tutto va per il verso giusto.
Ci sono ancora insegnanti che lavorano per lavagnate di operazioni e attraverso spiegazioni unilaterali. Mi sento proprio di dirlo. Ma utilizzare metodi esclusivi non giova e non è vero che siano più funzionali all’apprendimento delle tecniche di base. Le 50 operazioni fatte in solitudine non pagheranno mai nessun bambino in una classe, mentre un continuo confronto e un mutuo aiuto nel farle, questo sì che fa respirare un gruppo di bambini che imparano insieme. E sviluppa anche il senso del gruppo e delle decisioni condivise.
Due piccioni con una fava, si dice…
Del resto riuscire a impostare una metodologia che abbia una flessibilità costante nei modi e negli strumenti costa anni di tentativi, titubanze, paure a volte ingiustificate di danneggiare. Non è una passeggiata.
Pochi giorni fa ho letto questa frase:
“If this child does not learn the way you teach, can you teach the way he learns to develop his skills?”
( Se il bambino non impara nel modo in cui insegni, potresti insegnare nel modo in cui impara per sviluppare le sue competenze?)”. E’ una frase del dottor Harry Chasty (psicologo dell’educazione inglese che insieme a John Friel, ha scritto “Children with Specials Needs” pubblicato nel 1997) che mi ha fatto venire i “brividi da maestra”… perché identifica l’obiettivo che ogni giorno cerchiamo di raggiungere, ma mette addosso anche la paura di non esserne all’altezza.
Lasciarsi attraversare dalle loro esigenze e rispondere ad esse in modo adeguato richiede un continuo lavoro su se stessi. Il crescere insieme è questo.
E’ dura, però quando hai preso il giro, stare in cattedra a dettare parole e numeri non dà più soddisfazione.
Il Miur, a novembre 2013 , ha inviato chiarimenti sul procedimento redigere i piani personalizzati per gli alunni con Bisogni Educativi Speciali. Ma noi ci ritroviamo a differenziare sempre meno programmazioni e strumenti compensativi per questi bambini, rispetto al resto della classe. E di questo siamo orgogliose.
PS: il prossimo libro che comprerò sarà “Children with Specials Needs” in inglese. Scontrarsi con le proprie difficoltà quotidiane è un’esperienza da fare. Loro la fanno ogni giorno.
Ylenia Agostini