Ultima modifica 20 Giugno 2019
Persone in divenire, sì, questo ce l’ho presente.
Cervelli in divenire, invece, non del tutto.
Ecco, questo è uno dei “pezzi” che mi manca.
Mercoledì scorso abbiamo partecipato ad un corso di formazione sulle neuroscienze, finalizzato all’innovazione della didattica che, per quanto mi riguarda, mi ha aperto un mondo che andava aperto: la conoscenza dello sviluppo del cervello di bambini e, soprattutto, adolescenti.
Forse le tante insicurezze che ci assalgono, quando non sappiamo come comportarci, troverebbero un minimo conforto se fossimo a conoscenza di determinate e comprovate verità scientifiche.
I ragazzi, come ci ha detto il Prof., relatore del nostro corso, hanno estremo bisogno di conoscere le funzionalità del loro cervello, come del resto ne ha chi se ne occupa.
Il cervello raggiunge la sua maturità a 20-25 anni.
Prima di quell’età è impossibile aspettarsi una capacità di giudizio assennata e dettata dall’esperienza, perché fino a quel momento i neuroni sono tantissimi, ma poche le connessioni. Il cervello fino a quel momento non ha nemmeno la capacità di valutare i rischi, per cui il fatto che negli Stati Uniti si possa guidare un’automobile a 16 anni è inconcepibile. E anche a 18, sembra proprio non sia il caso.
In questo lungo periodo di formazione, il cervello è esattamente influenzato da ciò che gli sta intorno e da ciò che gli si propone…o, peggio, da ciò che gli capita, ed ogni cosa viene assimilata attraverso una componente emozionale.
E noi siamo ciò che gli capita.
Il “noi”, declinato, sarebbe genitori e insegnanti.
Siamo la loro strada, non nel senso che devono ripercorrere la nostra, ma nel senso che siamo noi, volenti o nolenti a portarli per mano nel loro futuro.
E certo che, se la mano non c’è o fa finta di esserci, non possiamo aspettarci nulla…o meglio, possiamo tranquillamente aspettarci il peggio.
Se invece ci siamo, dobbiamo esserci in un certo modo: dobbiamo fare in modo che le menti in crescita diventino critiche verso la realtà e le persone, dobbiamo fare in modo che considerino l’omologazione come un segno di debolezza e di poca vivacità mentale.
Tutto ciò comprende il ribellarsi: il prof ci ha detto chiaramente che i figli che non si ribellano, non crescono.
Ma anche nella ribellione dovremmo cercare di far comprendere e valutare i rischi, perché da soli non ce la fanno: non hanno il cervello pronto. Semplice anche se brutale.
Lo so, tutto praticamente ci rema contro, prima fra tutto la mancanza di tempo.
Però qualcosa possiamo fare: dare sempre diverse angolazioni di un fenomeno, cercare diverse interpretazioni, abituare il cervello a non accontentarsi della prima cosa detta se non verificata, girare intorno alle cose per vederle da ogni lato.
Ora, a pensarci bene, il bullismo parte proprio da qui: la falsa verità o la visione limitata di una persona è l’origine, ma il vero problema è chi ci crede e diffonde, senza preoccuparsi che la cosa sia vera o no.
Immagino creativamente con soddisfazione il bullo che addita e ride da solo di qualcuno, si guarda intorno e nessuno se lo fila. Direi che sarebbe liberatorio.
Un cervello abituato a vedere una persona in tutte le sue caratteristiche, non l’appiattisce in uno squallido soprannome o in un’offensiva definizione. Un cervello abituato al confronto e alla costruzione della verità da più punti di vista non si accontenta di bere ciò che gli dicono gli altri.
Ora, io stessa pensavo che il rispetto verso l’altro dipendesse solo dall’empatia che va comunque stimolata.
E invece dipende per gran parte da come facciamo funzionare il cervello o meglio da come viene abituato giorno dopo giorno.
Anche l’originalità, la creatività, l’intuizione nello studio sono promosse dalla qualità del “lavoro” che si fa nel quotidiano.
Per finire, mi è capitato per caso di leggere una frase di Cesare Pavese postata da D’Avenia che ci sta bene “Nessun ragazzo, nessun uomo ammira un paesaggio prima che l’arte, la poesia – una semplice parola anche – gli abbiano aperto gli occhi.”
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