Ultima modifica 24 Agosto 2020
Nella prima puntata vi avevo raccontato chi sono le mamme imprenditrici, cioè quelle donne che rinunciano al posto fisso per riuscire a dedicarsi un po’ di più ai propri figli, nel tentativo di conciliare nel migliore dei modi attività professionale e maternità.
Oggi cercheremo di capire cosa le spinge al grande passo.
Mettersi in proprio: sfida o necessità?
Ci sono due motivi che muovono una donna, di solito al rientro dalla maternità, a lasciare un’azienda o un posto fisso e a mettersi in proprio.
In primo luogo c’è la voglia di intraprendere un percorso nuovo. Infatti con l’arrivo del pupetto si ha spesso il desiderio di dare attuazione pratica e realizzazione a tutte quelle idee sorte prima o durante la gravidanza. Gli psicologi sostengono infatti che sia un prolungamento della sindrome del nido. Come una partoriente ha l’irrefrenabile bisogno di riordinare casa e fare pulizia a poche ore dalla nascita del bimbo, così sentirebbe anche il bisogno di mettere ordine nella propria vita e adattarla alle proprie esigenze mutate in relazione al nascituro. Diviene quindi una sfida, con se stessa in primis, ma non solo. C’è anche il desiderio inconscio di dimostrare al compagno ai parenti e agli amici che ce la si può fare.
Accanto a queste nobili motivazioni vi è poi la necessità. Ci può essere infatti il bisogno di nuovi orari più flessibili e adattabili alla nuova vita. Ma non è il motivo principe. Perché spesso al ritorno in ufficio si generano delle situazioni “spiacevoli”.
Si tratta a volte di declassamento o demansionamento camuffati da ristrutturazione, licenziamento. A volte, perché la crisi c’è crisi e si sente, ma non dimentichiamoci di chiamare le cose con il proprio nome: mobbing, che può essere più o meno pesante. E per parlare di mobbing non c’è bisogno che i singoli atteggiamenti molesti o emulativi, cioè attuati con il solo scopo di arrecare un pregiudizio, raggiungano necessariamente la soglia del reato, né che debbano essere di per sé illegittimi, ma è sufficiente che nell’insieme producano danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza.
Tuttavia, per poter parlare di mobbing, l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore dalla vita aziendale, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.
In Italia, il mobbing non è configurato come specifico reato a sé stante e sebbene l’art. 56 del TU a tutela della maternità preveda che, al rientro dal congedo di maternità, le lavoratrici abbiano diritto a conservare il posto di lavoro, salvo rinuncia esplicita, rientrando nella stessa unità produttiva o in un’altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino, le cose non sono così semplici.
Primo perché generalmente si cerca di rientrare con l’anno d’età del bambino e secondo perché dimostrare che la situazione non è più equivalente non è sempre possibile. Senza considerare poi che anche qualora si dimostrasse di avere ragione, nella maggioranza dei casi, si ricorre ad un indennizzo, perché tornare a lavorare nel medesimo posto sarebbe fastidioso. E così, prima o dopo, quando c’è aria viziata in ufficio in tante mamme, invece di aprire solo le finestre, escono e per sempre.
E per andare dove, a fare cosa e come sarà il tema della prossima puntata…
Elisa Costanzo