Ultima modifica 4 Maggio 2018
Ho sempre pensato che, quando uno si ammala, abbia il dovere e il diritto di curarsi con i rimedi che ritiene più adatti alla sua persona.
Che si prendano farmaci o si scelgano rimedi alternativi, che si tratti di malanni passeggeri o di cose più gravi, ogni cura è lecita, purché si mandi via il male e si torni a essere sani. Nel caso di malattie gravi, ritengo fondamentale ricorrere alla medicina tradizionale per il solo fatto che, seppur verissimi gli interessi delle case farmaceutiche e il business oscuro intorno a certi meccanismi che sfuggono agli animi più puri, l’attività seria della comunità scientifica, in alcuni casi, funge da deterrente all’attività di tanti che, speculano sul dolore delle persone disposte a ricorrere a tutto, santoni compresi, pur di vedere guarita una persona cara.
Ho sempre pensato che esistono mali del fisico e mali dell’anima e che vadano curati gli uni e gli altri allo stesso modo. Spesso, quelli invisibili, proprio perché tali, sono più difficili da diagnosticare e più lenti da curare.
Gestire stati di prostrazione, tristezza, malinconia, capire e affrontare una depressione e curarla con farmaci e analisi, non è facile. Alla malattia si aggiunge una forma di vergogna, come se il male dell’anima avesse a che fare con malattie mentali legate a preconcetti e vecchie concezioni della pazzia.
La definizione di follia è così influenzata dal momento storico, dalla cultura e dalle convenzioni che è possibile considerare folle qualcosa o qualcuno che prima era normale e viceversa, tanto che nella professione medica il termine è ampiamente evitato in favore di diagnosi e termini più appropriati. Ci sono stati anni in cui, se non andavi dall’analista non eri alla moda, anni in cui se non avevi all’attivo almeno un paio di anni dallo psicologo, non eri considerato neanche interessante.
E come tutte le mode sciocche che, fanno presa quando un terreno è più sensibile o fragile, l’uso della psicoanalisi ha rischiato di trasformarsi in una moda, in un costume, rischiando di perdere il suo vero valore terapeutico.
Ma la gestione della tristezza, quando la tristezza è una condizione patologica, quando ha a che fare con motivi seri che possono essere legati ad esperienze di vita o a stadi psichici non è roba che si può trattare da soli.
Credere di farcela da soli, credere che, ricorrere ad un terapeuta sia una cosa da deboli, pensare di avere sempre gli strumenti giusti per affrontare ogni tipo di avvenimento, non è un atteggiamento vincente.
Quando un male c’è bisogna ricorrere al medico giusto. E quando questo male si accompagna, o sia il frutto di una condizione di sterilità, infertilità, quando questa sofferenza psicologica è causata dalla difficoltà ad avere figli, bisogna chiedere aiuto.
Essere immersi nella ricerca di un figlio attraverso metodi artificiali, è difficile. Difficile gestire emozioni, sentimenti contrastanti, paure, collisioni. Concentrasi anche sull’amministrazione e il coordinamento delle nostre sofferenze, è quasi impossibile. Allora, forse è il caso di cercare un sostegno, di appoggiarsi a qualcuno che sappia capire le specificità del problema. E allora ben vengano psicoterapeuti, counselour, gruppi di sostegno, psicologi, purché abbiano esperienza nell’aiuto alle coppie con questo problema, che facciano sentire le donne e gli uomini meno soli.
A volte, chiedere aiuto e sostegno è un atto davvero coraggioso, per se stessi e per il bene della coppia.
Raffaella Clementi