Ultima modifica 23 Ottobre 2019

Mio figlio gioca a calcio. È entrato in un campo da calcio quando aveva sei anni, ora ne ha otto e mezzo.
Si diverte, anzi ormai diciamolo pure… è fissato! Tutto calcio. Giocato, parlato, guardato…
Mi fa una testa come un… pallone appunto.

Ma in campo lui è felice, e quindi lo sono anche io.

Semplice.

Partiamo dal concetto più semplice ed immediato.
Il benessere fisico e di salute generale.
Aspetto da non trascurare soprattutto in questa scuola, in cui ancora l’ora di ginnastica è vista quasi come un’ora “buca”.

Viene insegnato molto poco sullo sport e sulle mille discipline sportive esistenti e ancor meno, se non per nulla, sul suo significato in termini di salute appunto; e ancor di più del suo aspetto “umano“.

Fuori e dentro il campo

Mio figlio per esempio è un bambino a cui piace molto stare con gli amichetti.
Ogni tanto, quando non conosce bene, fa fatica a inserirsi in un gruppo all’inizio.
Esattamente come me … Mannaggia alla genetica !

Il calcio, essendo uno sport di squadra lo ha aiutato moltissimo.

Devi inseriti e trovare allo stesso tempo il tuo spazio. Condividendolo.
Non si può giocare da soli.
Mio marito ha sempre detto che si gioca a calcio così come si è nella vita e devo dire che è proprio vero.
Fin da piccoli si vede subito: il leader, il buffoncello, il timido, il generoso e l’egoista.

In campo (e fuori) devi imparare a condividere tutto.
Palla, gioco, successi e soprattutto l’amaro sapore della sconfitta.

Perché se è facile imparare a vincere, è ben più difficile imparare a perdere.

Prendendosi le proprie responsabilità e riuscendo a mantenersi obiettivi di fronte ad un avversario che ha giocato meglio di noi e soprattutto nel rispetto di compagni, mister e arbitro.

Sembra banale ma non lo è affatto.
E si vede chiaramente l’importanza di imparare queste cose fin da piccoli, quando smetti di guardare in campo e osservi gli spalti ricchi di genitori.

Fuori e dentro il campo

Perché se esiste un’ affinità fra giocatore in campo e modo di giocare è sorprendente vedere come ci sia la stessa affinità fra genitore-tifoso e danno al bambino.

Anche fra genitori infatti esiste il buffoncello che vede il lato comico di questi nanetti che corrono dietro alla palla. Quello ammazza-autostima che vede suo figlio e a fine partita gli dice “te sei proprio negato per giocare a calcio”.

E come non citare il suo esatto contrario corrispettivo, ovvero quello che vede in suo figlio la reincarnazione di Maradona ?

Poi c’è quello stile scarica-barile. Ovvero noi non abbiamo toccato una boccia ma è, in ordine sparso, colpa: del mister, della sfortuna, della natura che remava contro e della mamma che non è portata per lo sport.

E via così. Un campionario che potrei andare oltre ad elencare ma vi risparmio.

E come dicevamo eccolo lì:  il danno maggiore lo si fa ai figli.

Che si cuciono addosso definizioni come una seconda maglia.
Una seconda maglia che diventa come una seconda pelle.
Ed è davvero triste vedere come un momento importante di felicità e divertimento con tanto da insegnare diventa spesso per alcuni genitori un modo per dare il peggio di se.

E la maglia stretta infilata a forza al bambino diventa una seconda pelle a vita.
Fuori e dentro il campo.

Svalvolata ben riuscita. Precisa e attenta sul lavoro, giocherellona e sbadata in casa, tanto che spesso e volentieri dimentico le cose in giro (per fortuna mai marito o figlio).

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