Ultima modifica 18 Novembre 2021

In questi mesi ho provato, più di una volta, a scrivere un articolo per parlarvi del coronavirus in Giappone.
Non sono mancati gli spunti di riflessione, ma nello stesso tempo il discorso sembrava non portare da nessuna parte. E allora mi trovavo costretta ad abbandonarlo.
Oggi ci riprovo.Giappone e il coronavirus

Giappone e Coronavirus: I primi mesi.

Dalla notizia dei primi casi in Cina, e della diffusione del virus, il Giappone sembrava non preoccuparsi affatto. Le prime notizie non erano incoraggianti, come ricorderete anche voi, eppure i primi casi registrati in Giappone venivano etichettati come “un problema degli stranieri”. Certo non lo dichiaravano apertamente, ma i notiziari puntavano a mettere in evidenza la provenienza e gli spostamenti di ogni singolo paziente, con un’immancabile (e tranquillizzante) informazione sulla nazionalità dei pazienti.
Cinesi, in gran parte turisti o persone che lavorano nel turismo, che con i loro spostamenti avevano contagiato dei giapponesi.

E lo stesso ragionamento era stato applicato anche nel caso della nave da crociera Diamond Princess. Dopo aver sbarcato una persona risultata positiva a Hong Kong, la nave e i suoi occupanti erano arrivati a Yokohama, e la nave era stata messa in quarantena. Ogni giorno il notiziario parlava di nuovi contagi: la nave conteneva parecchie persone, e molti anziani, che si erano ritrovati a vivere a stretto contatto.

La diffusione del virus era qualcosa di ovvio, ma la sua velocità destava preoccupazione.

In quei giorni complicati, uno specialista in epidemiologia dell’università di Kobe era riuscito a salire a bordo della nave: il suo racconto preoccupato, affidato ai canali social, era stato il primo segnale di un qualcosa che, come già successo altrove, non stava andando per il verso giusto.
Giappone e il coronavirusIn quel periodo sono dovuta tornare in Italia per un lutto in famiglia.
Dovevo farlo, e non avrei mai potuto perdonarmi se non lo avessi fatto, ma ammetterete che il periodo non era propizio.
Eravamo ai primi di marzo. Dopo aver provato la zona rossa, le autocertificazioni e la paura di non riuscire a tornare dalla mia famiglia in Giappone ho finalmente realizzato che ci trovavamo di fronte a un bel problema.

Il comportamento del Giappone

Una volta tornata in Giappone ho cercato di capirci qualcosa. Pochi test diagnostici, regole rigide per riuscire a ottenere un esame, e pochi posti disponibili nei vari reparti di terapia intensiva del paese.
A quanto sembra, il Giappone aveva cercato di contenere i diversi focolai di infezione, e ci era riuscito almeno all’inizio. Il ritorno dei vari giapponesi, dopo una vacanza, o richiamati in patria al primo accenno di peggioramento delle condizioni negli altri paesi, aveva causato un aumento esponenziale dei casi di coronavirus.
A cui nessuno sembrava voler reagire. O almeno, reagire concretamente.

Le dichiarazioni di emergenza

All’inizio del mese di aprile i problemi causati dal contagio del covid19 erano ormai evidenti. E questo ha portato (finalmente) alla dichiarazione di emergenza: in un primo tempo ha riguardato solo quattro prefetture (quelle in condizioni peggiori), ma poi è stato esteso a tutto il resto del paese.

I contenuti potrete immaginarli anche voi, mi limito a raccontarvi che non siamo stati obbligati a stare in casa.

Le scuole erano ferme dall’inizio di marzo, così come tutte le attività sociali che comportavano uno stretto contatto (palestre, cinema, corsi per bambini e adulti), e i negozi che non vendevano generi alimentari o prodotti di prima necessità erano stati chiusi. Quindi, volenti o nolenti, siamo rimasti in casa lo stesso.
Le condizioni cambiavano di continuo, le scuole avevano ricominciato il nuovo anno scolastico, per poi vedersi costrette a lasciare a casa gli studenti. Gli insegnanti con contratto a tempo pieno andavano al lavoro ugualmente, gli altri (come me) sono rimasti a casa. Dopo un mese passato in queste condizioni, le scuole hanno cominciato a riorganizzarsi piano piano, qualcuna con lezioni online (l’ho fatto anche io, due lezioni di italiano in giapponese, non credo di essermi mai trovata tanto a disagio), altre con semplici bustoni di compiti per i bambini.
Ma bene o male siamo arrivati alla fine del periodo di emergenza.

E ora?

In teoria il momento di crisi è stato superato.

Gli ospedali cominciano a respirare, e sembra che sia diventato un po’ più facile riuscire a ottenere un tampone in caso di dubbio.
Ma molti sono scettici: il modo in cui il paese ha affrontato il problema, con pochissime comunicazioni e poche analisi, il fatto che il confine risulti ancora chiuso, e non sia possibile avere la sicurezza di poter rientrare se si decide di uscire dal Giappone, unito a una serie di focolai che continuano a verificarsi in varie parti del paese non permette ancora di tirare un sospiro di sollievo.
E, se mi permettete lo sfogo, l’idea di affrontare la torrida estate giapponese senza una via di fuga qualsiasi (un hobby, un piccolo viaggio a livello locale, la possibilità di poter rivedere amici e parenti in Italia) mi lascia poche speranze.

Incrociamo le dita, e speriamo che niente possa interrompere questa serie positiva.
Sia per noi, che per voi. Un abbraccio, a dovuta distanza, dal Giappone.

Vivo in Giappone dove insegno agli adulti che vogliono imparare la mia lingua, mi sono sposata e, quattro anni fa, è arrivato il nostro piccolino. Dopo di lui sono arrivate pure delle soddisfazioni sul lavoro, e ho cominciato a lavorare per un'università della zona in cui vivo.

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