Ultima modifica 28 Aprile 2021
Qualche volta è un brutto voto inaspettato, altre una delusione d’amore o un conflitto familiare, spesso un problema tra amici o la difficoltà di accettare il proprio corpo, più raramente (ma neanche tanto) uno sguardo interpretato male o una parola di troppo.
Insomma: tutto può essere la causa scatenante della crisi di un adolescente.
E nel calderone immediatamente ci finisce tutto.
Un tema da svolgere come compito che sollecita riflessioni faticose sull’accettazione nel gruppo. I compagni che non capiscono il brutto periodo che stai passando e pensano che stai cercando una scorciatoia per avere voti migliori.
I compagni di squadra che non ti passano la palla perché hai sbagliato una volta anche se loro sbagliano tanto quanto te.
I genitori che non comprendono la fatica che stai facendo a diventare grande. Quel messaggio nella chat di WhatsApp che sembra colpire proprio te.
La crisi adolescenziale è sempre dietro l’angolo e ogni piccolo mutamento (reale o percepito) la riporta prepotentemente in primo piano.
Crisi che sono sempre sulla linea di confine tra ciò che è “normale” e ciò che è “patologico“.
L’adolescenza, infatti, è definita “l’età borderline”.
Ma cosa significa questo termine? E come si fa a rimanere nell’ambito della “normalità” senza entrare nella “patologia”?
“Il disturbo borderline di personalità è un disturbo di personalità le cui caratteristiche essenziali includono la paura del rifiuto, l’instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, nell’identità e nel comportamento. Possono essere presenti ira incontrollabile e depressione.
Tali comportamenti sono presenti fin dall’adolescenza e si manifestano attraverso una varietà di situazioni e contesti.
I sintomi solitamente includono, oltre alla paura del rifiuto, intensi timori di abbandono, rabbia estrema e irritabilità, spesso per ragioni che gli altri hanno difficoltà a comprendere o considerano futili.” [fonte wikipedia]
Forse, detto così, vuol dire tutto e niente.
Qualche tempo fa mi sono trovato a dover spiegare a un ragazzo affetto da questa patologia di cosa si trattasse, dovendo trovare un modo comprensibile per raccontarlo.
Ho dunque preso un foglio e tracciato una riga: a sinistra ho scritto la parola “normalità” e a destra “patologia”. Poi con un pennarello ho evidenziato la riga.
“Questa è la border line” ho detto al ragazzo. “L’obiettivo è di non andare mai oltre la linea perché ogni volta che la si supera tornare indietro è sempre più faticoso. E il rischio è di non riuscire a tornare indietro“.
Intendiamoci: non sto sostenendo che ogni adolescente sia a rischio “pazzia”.
Non nel senso clinico del termine, almeno. Ma i comportamenti borderline sono una caratteristica tipica dell’adolescenza.
Senso di onnipotenza, depressione, ansia, paura estrema, difficoltà a decodificare le proprie emozioni, rabbia incontrollata, crisi di pianto e nichilismo cosmico sono sentimenti che accompagnano i nostri figli durante tutta la loro adolescenza, ma che possono avere un esito positivo in quanto formativi della propria identità. Ovviamente se accompagnati perché, in educazione, esiste un dispositivo pedagogico di fondamentale importanza rappresentato dall’attraversamento dell’esperienza.
Che cosa significa?
Semplicemente che bisogna trasformare la crisi in krìsis. Un momento di crisi (cioè di riflessione, di valutazione, di discernimento) può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento, per una rinascita, per un rifiorire prossimo.
Insomma: da una difficoltà si può imparare qualcosa che ci accompagnerà per tutta la vita, come risorsa.
La domanda è: chi sono i soggetti deputati a questo attraversamento dell’esperienza? Certamente la famiglia, innanzitutto. Quel luogo fatto di accettazione “a prescindere” dove sviscerare (reciprocamente, da adulto ad adolescente e al contrario) i differenti aspetti della vita.
Ma non solo. Perché l’adolescenza è il tempo della socialità, la fase della vita in cui è necessario staccarsi dal nido (con la sicurezza che è possibile tornarvi ogni volta che lo si ritiene necessario) e confrontarsi con il mondo, quell’universo fatto di adulti nel quale i ragazzi devono necessariamente entrare per diventare – a loro volta – “grandi”.
Ovviamente il principale luogo socializzante esterno alla famiglia in cui sperimentare questo processo è decisamente la scuola.
ma la scuola è abilitata a questo compito?
“Secondo un rapporto dell’Ocse, la scuola italiana è tra le più ansiogene d’Europa. Eppure nel nostro Paese la legge non prevede un dispositivo di tutela alla salute mentale negli istituti scolastici. In assenza di un quadro normativo statale, tutto sta alla volontà dei singoli istituti, che possono decidere di ospitare il C.I.C. (Centro di Informazione e Consulenza), istituito dalla Legge n° 162 del 26 giugno 1990. Questo «sportello di ascolto» è in genere finanziato congiuntamente dalle scuole e dalle aziende sanitarie.” (fonte: Open)
Il C.I.C. è normalmente coordinato da uno psicologo e gestito da insegnanti che vengono appositamente formati per aiutare i ragazzi ad affrontare le fatiche del loro processo di crescita. Con buona pace della pedagogia che, come al solito, se ne sta (o viene lasciata?) ai margini.
Tutto ciò è sufficiente? L’esperienza sembra dire di no. Tanto che in Inghilterra i ragazzi si sono auto-organizzati per affrontare le fatiche dei compagni in un percorso di peer-education.
Eppure il fenomeno è sotto gli occhi di tutti. Cosa aspettiamo ad attrezzarci per supportare i nostri ragazzi ad attraversarlo?