Ultima modifica 20 Giugno 2019
Era primavera. “Lumacaaa!”
La mia maestra, o meglio, una delle mie quattro maestre delle elementari mi chiamò così, senza sorridere, per capirci.
Io ci sono rimasta così male che a 41 anni suonati ancora ricordo quell’urlo nel silenzio.
Avevo l’allergia e non facevo che starnutire, mi prudevano gli occhi e ogni 5 minuti dovevo soffiare il naso e asciugarmi gli occhi. Non era una tragedia, ma tenerne conto magari e rallentare la dettatura poteva essere un’idea.
Invece no, “Lumacaaaa”!
E poi la matematica studiata a pappagallo, senza poter chiedere “Perché?” era una tortura. Avrei preferito studiare con il sorriso e con qualcuno che mi dicesse “Cosa ne pensi?”
Zitto e nuota, per dirlo alla Dory.
Quattro ore, (allora la scuola chiudeva le porte a mezzogiorno), quattro ore ad ascoltare e scrivere. Esistevano meravigliose alternative, ma erano in Emilia Romagna.
Poi le medie.
Una prof di italiano, storia e geografia che dava scapaccioni a chi non studiava, senza porsi alcun problema. Volavano gli imbecilli e i cretini tutti i giorni. Non era bello, ma nessuno si lamentava.
Tutti a testa bassa.
Al liceo classico la prof di filosofia e quella di italiano hanno finalmente rotto il triste equilibrio: noi dovevamo pensare! Noi dovevamo esprimere opinioni!
E poi lui, il professore di matematica, strano tipo, che vedevamo quattro ore a settimana (era il classico sperimentale) !Insiemistica pura, ragionamento a schizzi. Infatti primo compito 4 e mezzo.
Lui scriveva alla lavagna e stava lì, zitto, ad aspettare noi. All’inizio ho pensato machimel’hafattofa’???
E il sapere ha cambiato forma e è diventato come la Lego: da costruire.
Le persone che incontri in genere, ma, soprattutto, gli insegnanti, sono strade.
Ora sono insegnante di matematica. Tutte le esperienze scolastiche avute tornano ogni giorno a salutarmi dalla finestra e anche io sono diventata una strada per i bambini che stanno con noi da 5 anni.
Aspetto chi resta indietro, osservo e studio le espressioni dei miei alunni, odio far passare concetti senza farli comprendere fino in fondo e non mi piace parlare da sola.
La lezione è un lavoroinsieme e tutti vengono chiamati a dire la loro.
L’unico problema è che, stelline, abituati così è difficile farli placare. Certe volte per alzare la mano fanno saltare il banco.
A volte ho avuto paura di questo modo di lavorare, sono una strada per loro e contemporaneamente mi sento come l’autista di un autobus che sa dove deve andare ma ci arriva attraverso le strade secondarie che indicano i bambini.
La lezione ogni volta si inventa e cambia, pur avendo uno scopo preciso.
Ci vuole di più, ma che m’importa? Andando piano ed evitando l’autostrada, acquista valore il viaggio, il passaggio, il percorso.
E’ diverso da quello che ho subito da piccola.
Avrò anche imparato la grammatica e le tabelline, l’analisi logica e la storia, ma non il senso liberatorio della scoperta.
Lì era un’altra strada, era già tutto pronto per essere fotocopiato dalla mente. E chi aveva una “fotocopiatrice diversa” per accogliere i documenti e non riusciva, si arrangiava.
Per fortuna che ho una collega che la pensa come me, due autisti sempre in viaggio per strade improbabili, due strade che sentono ogni giorno la responsabilità di esserlo.
Ylenia Agostini