Ultima modifica 17 Giugno 2023
Ricordo oggi una frase scritta in un “vecchio”pezzo: La scuola non è una calda coperta che si può adattare alle esigenze di ciascun genitore.
Questo a prescindere ovviamente da un bisogno particolare, un periodo difficile, un problema che non trova soluzione immediata.
Questo “ritorno” mi viene dalla somma di episodi particolari accaduti a scuola che mi hanno fatto riflettere sulla necessità impellente di riconoscersi in un ruolo, che sia quello di genitore o insegnante.
Provo a fare delle considerazioni personali.
La scuola è per tutti e parla a tutti con un linguaggio il più declinato possibile, ma la modulazione deve per forza trovare un limite, altrimenti per l’insegnante diventa un tutoraggio indiscriminato con rapporti di 1:40 fino a 50.
Un bambino che viene trasferito in altra scuola perché non regge il tipo di cammino educativo scelto dall’insegnante è stra-liberissimo di andare.
Ma i suoi genitori perdono in quel momento esatto l’occasione di educarlo alla vita reale.
Arriva alla seconda sede, dove l’insegnante non rimprovera come la precedente, ma affida il triplo dei compiti rispetto a quella di provenienza.
Verrà di nuovo trasferito?
E’ un po’ questo che viene fuori: la paura di lasciare che il proprio figlio si scontri con realtà educative diverse da quelle familiari. La necessità, che non potrà mai trovare soddisfazione, di cercare metodi educativi sovrapponibili a quello familiare.
Io per la prima volta vivo l’esperienza di una figlia in prima.
Insegnanti in gamba e di esperienza. Persone in gamba e di esperienza.
26 bambini in classe: so perfettamente che non è la migliore delle situazioni.
Mia figlia sta facendo il suo percorso regolare. La vedo scrivere.
La vedo mentre tenta di leggere le prime parole tirando fuori la linguetta quando è difficile.
Ha superato già due supplenti senza scomporsi più di tanto (che per me è importante), anche se la sua insegnante d’italiano è rimasta “la figurina” speciale rispetto alle sostitute.
Torna a casa quasi ogni giorno con il mal di testa.
“Amore, la scuola è così: è un po’ bella e un po’ dura.
Un po’ di confusione c’è perché tutti vogliono un aiuto, perché tutti vorrebbero parlare, perché tutti si muovono.
A casa ti puoi riposare quanto vuoi.” Non mi ascolta. E’ inquieta col suo mal di testa.
In macchina il tragitto verso casa in silenzio. Neanche le canzoncine.
Le sue sopracciglia si distendono e la pieghetta nel mezzo della fronte non c’è più dopo 2 chilometri. Poi il pomeriggio si fa un pisolino… si apre il quaderno: “Quanto sei brava accidenti! Già hai fatto la T!” Impara piccole filastrocche a memoria sorridendo.
“Oggi la maestra si è dimenticata di mettere una faccina bella però” (e ti credo, con 26 bambini)
“Domani si ricorderà, vedrai. Senza una faccina si vive lo stesso”.
Non se ne può fare una questione di principio no?
Vanno aiutati a creare una gerarchia di “ingiustizie subite” per cui su certe cose si deve soprassedere senza neanche porsi il problema.
Al mattino non dice mai “Non voglio andare a scuola”.
Semmai dice “Ho sonno” e questa, secondo me, è la sua conquista quotidiana della vita, che deve a se stessa e anche a noi genitori e alle maestre.
Non si tratta di essere più o meno bravi.
Ma di credere fermamente o meno in un cammino nel quale si devono affrontare le difficoltà ogni giorno: quelle che capitano e non quelle che si scelgono.
Parlando con alcune colleghe mi è tornato in mente un libro di Vygotskij , “Pragmatica della comunicazione umana”, che ho letto “secoli fa”, ma che non riesco a dimenticare, come due o tre frasi della mia prof di filosofia, perché le ho scelte per darmi una strada.
Vygotskij, riguardo alle tipologie di rapporti patologici fra persone, parla della teoria della “profezia che si avvera”: se io dico ad un bambino, anche con linguaggio gestuale o comunque non verbale, che non sarà capace di affrontare una situazione o comprenderla, lui non l’ affronterà o non la comprenderà. Manterrà questo atteggiamento arrendevole e sfuggente anche in altre situazioni.
Sì, perché le persone di riferimento non credono in lui, cioè non credono che possa superare il momento difficile.
I genitori che hanno trasferito ad altra scuola il loro bambino secondo me gli hanno lanciato questo messaggio negativo.
E’ solo la mia opinione, ovviamente.
Però noi, quando viviamo le situazioni con le nostre figlie, quelle importanti, ci pensiamo.
Tutto è da costruire giorno dopo giorno.
Anche la loro tenacia, che va sostenuta non ingozzandoli di attività al pomeriggio, perché hanno bisogno di metabolizzare il brutto e il bello della scuola.
In questo bisogna accompagnarli, osservarli e aiutarli a capire che è un cammino fatto di ostacoli.
Spaventarsi serve a poco. Tirarsi in dietro è dannoso da morire.
Ci vuole che noi genitori li avviamo in modo dolce, serio e costante alla responsabilità di cose che sono comunque adeguate. In fondo la scuola fornisce occasioni di responsabilizzazione che vanno colte e fatte crescere proprio dai genitori.
Bambini di 6 anni che hanno, sì e no, due pomeriggi a settimana liberi dalle attività extra-scolastiche secondo me sono messi in seria difficoltà in questo.
Entrano in un turbine scomposto di appuntamenti che li distrae e non riescono a godersi quelle che sono le più grandi conquiste: leggere, scrivere, contare e avere tempo di pensare.
Genitori di bambini in difficoltà potrebbero insegnare a me e a tanti altri come non si molla.
Come si vive la scuola, come veramente ci si deve dedicare alla scuola.
Potrebbero essere in nostri maestri in questo (e per me genitore lo sono e li ringrazio). Vorrei tanto che quel genitore che ha trasferito il suo bambino potesse starli a guardare come un meraviglioso film che lascia una traccia nella mente.