Ultima modifica 20 Giugno 2019
Fate uno sforzo di immedesimazione e immaginate di essere trasferiti per qualche motivo in un altro ambiente di lavoro, dove tutti si conoscono da anni, dove molti si capiscono con uno sguardo, dove le dinamiche sono più o meno stabili e dove qualcuno vi guarda storto, perché pensa che possiate “rompere le uova nel paniere”. Certo, potreste anche essere ottimisti e pensare che farete amicizia, ma la sensazione, al vostro ingresso, dipenderà un po’ da voi e un buon 70% da chi vi accoglie, se non altro perché siete in netta minoranza.
Quando c’è un nuovo ingresso a scuola, la situazione non è molto diversa.
Il bambino, che arriva, è nervoso, impaurito, insicuro e, di solito, è convinto di essere più indietro dei compagni nell’apprendimento. Non sa cosa portare a scuola, non ha “i libri”, che sembrano essere quasi uno status symbol, testimonianza del sapere di classe, e si sente addosso gli occhi di tutti.
I bambini, che entrano in una nuova classe, sanno perfettamente che chi accoglie si sta chiedendo: “perché è venuto proprio qui e perché proprio adesso?”
Dico questo perché spesso (soprattutto negli arrivi a metà anno) c’è nervosismo da parte delle altre famiglie: chi sarà il nuovo compagno? Sarà tranquilla la nuova compagna? Perché si è trasferito? Da quale scuola arriverà? E parte, simpaticamente, il toto-motivo-trasferimento.
Sconvolgerà gli equilibri? Sì, ebbene sì, li sconvolgerà. Ma, se li sconvolgerà, in negativo o in positivo, dipenderà tantissimo dall’accoglienza.
In fondo, chi c’è già ha il suo “nido”, conosce “palmo a palmo” scuola, classe, compagni, insegnanti e, quindi, la sua destabilizzazione è del tutto relativa. È chi arriva che deve preoccuparsi : un prato in fiore o la fossa dei leoni?
Certo è che gli arrivi in periodi, che non coincidono con l’inizio delle lezioni, sono sempre un po’ difficoltosi e, molto spesso, sono motivati da eventi familiari improvvisi o situazioni di disagio in altre scuole. Ma, non per questo è necessario “appanicarsi”.
Leggendo la notizia degli ultimi giorni, che riguarda una scuola delle Marche – situazione di cui non si conoscono tutti i risvolti -, sembra, invece, normale preoccuparsi.
È certo che, a sentir parlare di una bimba picchiata e andata in ospedale, saltiamo sulla sedia.
Ma, come insegnante che ne ha passata qualcuna, pensando a un bambino cacciato da una scuola e in sospeso per entrare in un’altra, con l’etichetta stampata in fronte, la cosa mi intristisce. Non è il primo bambino che “mena i compagni” e, probabilmente, non sarà neanche l’ultimo. Ma, un bambino così deve essere accolto e poi aiutato con tutti i mezzi possibili, prima di subito: affetto, considerazione continua, contenimento e controllo serrato a scuola (anche perché riuscire a placare un bambino di sette anni, che vive una simile esperienza di rabbia e farlo convivere serenamente con gli altri, è un importante successo scolastico). Servono le altre insegnanti della scuola (le dirimpettaie), che si stringono intorno a quella che è in difficoltà oggettiva, senza chiudere le porte. Oppure, in caso di patologia, occorrono interventi specifici, dialogo con i genitori, perché un bambino, che mena un compagno, non sa le parole per esprimere quanto rancore nutre per il resto del mondo. E il calore dei genitori e degli altri bambini può essere importante. Invitare a casa il bambino che mena è impensabile? A meno che non ci sia una patologia, io credo di no. Dimostrare al bambino, che può essere accettato dagli altri, è la cura migliore. Serve coraggio e iniziativa.
Se tutto questo è stato fatto, allora come se ne esce? Cambiando ambiente. Ma, se il nuovo è già chiuso in partenza? Chi dirà a questo bambino che c’è anche un altro modo di vivere nel suo mondo?
È un precedente pericoloso: un bambino può essere mandato via da una scuola in quanto ” è”.
Così non smetterà di menare e, forse, menerà ancora più forte.
Io, insegnante, non l’avrei mollato per niente al mondo, forse perché so di avere colleghe pronte alla collaborazione, forse perché ci credo forte. La colpa non è di nessuno, ovviamente, ma il fatto c’è.
Ho fatto vedere ai bambini un’immagine che gira in Internet, riportata qui.
Se io, insegnante, propongo la verifica sulle moltiplicazioni in colonna, vietando la tavola pitagorica al bambino, che non è riuscito a memorizzare le tabelline, non solo non saprà le tabelline, ma gli verrà precluso anche il dimostrare di aver appreso la tecnica. Se io, insegnante, ho un bambino che mena, provo a dargli importanza ogni momento della sua giornata scolastica, in cui non lo fa, e lo tengo stretto quando ha i suoi momenti. Si può fare. Questi sono gli “sgabelli più alti”, che servono nelle difficoltà di apprendimento ed emotive, oppure, interventi specifici. Un’ultima domanda: quel bambino, quando troverà una scuola disposta ad accoglierlo, con che animo varcherà la soglia, che tipo di “nuovo arrivato” sarà, con un trascorso del genere?