Ultima modifica 10 Ottobre 2019

Non è facile parlare di integrazione, soprattutto di questi tempi.

Credo che stare dalla parte della “espatriata” mi abbia insegnato molte cose, e tante ancora me ne debba insegnare. “Espatriato”, o expat in inglese, è un termine molto di moda per indicare chi vive all´estero, per scelta o per necessità, e che si tende a tenere ben distinto dal termine “emigrato”, quasi fosse un dispregiativo da addossare a chi fugge da una realta´ di guerra o di crisi economica.

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Ma non è forse la crisi economica italiana che spinge sempre più connazionali a lasciare il bel paese?

Forse è solo difficile ammettere di essere un individuo “estraneo” in terra straniera, qualunque sia la ragione che ci abbia spinto a fare il grande passo.

Ho fatto questa premessa per spiegare come vivere al di la dei propri confini, lontano dalla propria gente e dalla propria cultura, possa aprire gli occhi sia dal punto di vista di chi cerca di inserirsi in un nuovo contesto, sia di chi si trova ad accogliere il “diverso”.

Parlando del primo aspetto, dico subito che per noi non è stato facile.

L’ Austria è un paese “nordico”, dove la simpatia e il calore della gente non sono i loro maggiori pregi.
Per di più il Tirolo è una regione di montagna, e la situazione è  ancora più esasperata.
E’ stato difficile soprattutto per nostra figlia, che arrivava da un contesto italiano di forti amicizie, in cui giornalmente e liberamente ci si organizzava per fare qualcosa insieme; è stato difficile perchè i bambini sono lo specchio dei genitori, ossia nel caso degli austriaci molto più “riservati” dei calorosi e rumorosi piccoli italiani; è stato difficile inserirsi in un piccolo gruppo di persone come quello del villaggio in cui viviamo, dove gli abitanti si conoscono tutti e non sono abituati a vedere sempre gente nuova; è stato difficile per nostra figlia non essere invitata a un compleanno per parecchio tempo.
Insomma, abbiamo affrontato tutte le difficoltà del caso, alle quali non si vorrebbe mai esporre i propri figli.

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In realtà ce la siamo cavata come se la cavano tutti, frequentandoci col resto della comunità italiana della zona, che ci ha permesso di svagarci e allo stesso tempo di ricevere preziosi consigli.
Ad esempio, che conta molto poco stare ad aspettare di ricevere un invito, molto meglio buttarsi e farlo per primi. Oppure, che risulta fisiologico lasciar passare un po’ di tempo, affinchè la gente del luogo ti focalizzi, sappia chi sei e impari a fidarsi di te.
Questo tempo in effetti è passato, ed è durato circa un anno.
Un lungo e complicato anno, in cui mia figlia ha imparato bene la lingua, e noi adulti abbiamo acquisito dimestichezza col dialetto locale, assolutamente da padroneggiare per chi si voglia realmente integrare!

E qui tocco un punto importante, che si lega indissolubilmente al secondo aspetto di cui parlavo all´inizio: in sostanza, ci si integra se lo si vuole fortemente. E questo credo che valga ovunque.
Ho capito che integrarsi significa prima di tutto conoscere, capire, accettare e infine adattarsi almeno in parte al contesto in cui ci si vuole inserire; occorre partire dal presupposto che ciò a cui siamo abituati, il modo in cui siamo cresciuti, non è necessariamente cosa buona e giusta, e che considerare punti di vista differenti è il primo passo verso quel pianeta lontano e sconosciuto ai più, chiamato apertura mentale.

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Abbiamo imparato a conoscere le caratteristiche principali di questo popolo: la loro precisione, puntualità, semplicità, sportività e silenziosità. A fatica mi sono adattata a prendere appuntamento settimane prima con le altre mamme per poter organizzare un pomeriggio coi bambini, ho conosciuto i loro usi e costumi familiari, ne ho accettati tanti e ne rifiuto ancora alcuni, tenendomi sempre e sacramente stretta la mia preziosa italianità.

In questi due anni e mezzo, ho conosciuto parecchi italiani qui, e fra questi tanti a cui non interessa minimamente integrarsi; si frequentano prevalentemente tra di loro, continuano a vestire i bambini all’italiana e a vivere con le proprie abitudini.
Io naturalmente rispetto tutti, ma non credo che questo modo di vivere possa arricchire davvero l’esperienza dell’espatrio.
Ormai mia figlia si vuole vestire come i suoi amici austriaci, predilige quindi i colori accesi e gli accostamenti improbabili, li vuole frequentare anche fuori dalla scuola, e vuole fare quello che fanno loro. Questa sua esigenza è maturata e cresciuta nel tempo, e io non posso che appoggiarla facendo tutto ciò che è in mio potere.

Finalmente, ci siamo ben inseriti nel tessuto locale, conosciamo molte famiglie, facciamo e riceviamo inviti, e tutti apprezzano il nostro bagaglio culturale e soprattutto culinario! Questo risultato è frutto di un “lavoro”, come lo chiamo io, meticoloso e costante, che però ha portato i tanto desiderati frutti.

Naturalmente, cerco sempre di tenere viva la cultura italiana in famiglia, e insegno a mia figlia che esistono anche gli abbinamenti e gli accostamenti di colore!

Concludendo, credo che il vero senso di un espatrio, per qualsiasi ragione si decida di farlo, sia quello di arricchire il proprio bagaglio socio-culturale con quello che il paese di adozione può dare a noi e ai nostri figli, di allargare i propri orizzonti mentali facendo propri alcuni aspetti della nuova cultura, e, perchè no, portando un pezzettino della propria tra le nuove conoscenze.

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