Ultima modifica 10 Ottobre 2019
Quando si cambia paese bisogna integrarsi, non esistono vie di scampo.
Ma che cos’è l’integrazione, in fin dei conti?
Me lo sono chiesto spesso, e ora cercherò di rispondere raccontando qualcosa della nostra esperienza.
Integrarsi vuol dire prima di tutto adattarsi, capire che per una serie di motivi vengono a mancare quelle che erano state le nostre certezze quotidiane. Restare attaccati a cose che non ci sono più è controproducente e non porta a niente di buono, allora bisogna cambiare il proprio punto di vista.
Facciamo un classico esempio da immigrata: in Italia potevo acquistare del buon pane semplicemente uscendo di casa, mentre ora non riesco a trovare niente che mi soddisfi. Allora che posso fare?
Inizio a lamentarmi del paese, del costo della vita, della loro chiusura mentale e così via, oppure cerco un modo per preparare il pane in casa?
Ovviamente cerco di arrangiarmi, preparo il pane in casa e tengo viva in questo modo una parte della mia “stranieritudine”.
Come ci si integra in una realtà completamente nuova?
Da dove si comincia? E quali cambiamenti potrà provocare?
Prima di tutto, per quanto mi riguarda, è stato necessario cominciare con la lingua. Ovviamente, senza fermarsi a un “tanto capiscono anche l’inglese”. Perchè anche partendo con le migliori intenzioni, non parlare la lingua del posto in cui si vive è molto penalizzante.
Io avevo preso questo aspetto molto sul serio, a suo tempo. Pur conoscendo il paese da qualche anno, quando avevo preso i miei risparmi e mi ero trasferita qui per studiare la linga avevo cercato di fare il possibile per imparare in fretta. Poi, il resto lo aveva fatto la vita quotidiana.
Ovviamente, dopo il primo passo bisogna continuare a progredire. Cercare un lavoro, anche se si tratta di un part-time, oppure mettersi a studiare la lingua. Insomma fare del proprio meglio per riuscire a restare in esercizio.
Il marito non necessita di particolari integrazioni, visto che ci troviamo fra i suoi compatrioti giapponesi. “Giocando in casa” non ha sopportato nessuna difficoltà, se non – forse – il “fastidio” di tornare ad avere a che fare coi suoi genitori, visto che siamo venuti ad abitare al primo piano di casa dei nonni.
Poi c’è il bambino, che per la sua giovane età e per l’asilo che frequenta, parla giapponese e non ha particolari esigenze collegate alla sua mamma straniera. Magari le necessità si presenteranno in un secondo momento, questo ancora non posso saperlo, ma per ora i suoi problemi principali sono legati al tempo che passa coi suoi compagni: lui ne vorrebbe molto di più.
Il mio livello di integrazione varia notevolmente, in base al contesto e alle persone che mi trovo di fronte.
Certo, sono integrata per quanto riguarda la vita quotidiana, so cavarmela nelle situazioni semplici e so venire a capo di quelle più complesse. Però non è sparita quella sensazione di essere “la straniera della situazione” che si presenta in certi momenti.
Non si tratta di veri e propri problemi, ma solo di piccole seccature che complicano la giornata, e che magari preferirei che non si presentassero proprio: per esempio, in una situazione di urgenza l’interlocutore prende tempo per parlare con qualcuno che capisca il giapponese, nonostante io mi stia rivolgendo a lui nella sua stessa lingua. Oppure i problemi che sorgono quando mi dicono “firmi normalmente” e mi tocca riscrivere tutto perchè ho firmato con nome e cognome (e non viceversa).
Il luogo in cui si vive conta tantissimo ai fini dell’integrazione.
In un primo momento abbiamo vissuto in un piccolo appartamento, nella zona meridionale della cittadina in cui abitiamo. Il tutto era perfetto: vicinanza ai servizi (stazione a cinque minuti, supermercati a poco più di dieci, parchi pubblici in tutte le direzioni. E specialmente, un sacco di coetanei sia fra le altre mamme che fra i bambini della zona. Era una situazione ottimale, e non è un segreto che continui a sentirne la mancanza nonostante siano già passati due anni. Però non era casa nostra, eravamo in affitto e lo spazio interno era veramente limitato.
Quindi abbiamo traslocato. I suoceri ci hanno offerto la possibilità di andare a vivere da loro, abbiamo fatto ristutturare la casa che è stata divisa in due unità abitative. Ho cominciato subito a girare per i dintorni, alla ricerca dei punti più interessanti. Devo dire che ci sono parecchie differenze: l’età media dei residenti è molto più alta, mancano i bambini e – triste ammetterlo – anche numerosi spunti di conversazione. Molto spesso mi trovo davanti a domande indiscrete, a cui non vorrei rispondere, e mi chiedo come sia meglio comportarsi…
Ci siamo integrati?
In questo caso mio marito è stato il più avvantaggiato, visto che siamo tornati dove lui è cresciuto, e non ha fatto molta fatica. Mio figlio, come sempre, si è buttato a pesce, cercando di fare amicizia coi bambini che abbiamo incontrato, ma all’inizio non era andata molto bene. Poi, per fortuna, cominciando l’asilo ha conosciuto tanti altri suoi coetanei, che gli hanno fatto tirar fuori la voglia di comunicare. Alcuni abitano nelle vicinanze, e piano piano ci siamo avvicinate anche noi mamme. Io, come ho accennato, sono quella che probabilmente ha fatto più fatica ad ambientarsi.
Prima di tutto, qui mancano quasi completamente le persone della mia età. Sapevo quale situazione avrei trovato, ma – come potreste immaginare – non si trattava di un motivo valido per rinunciare al trasloco.
Poi mancano le situazioni “sociali”, quei momenti con piccoli eventi, o quei Cafe’ in cui puoi casualmente metterti a chiaccherare con qualcuno. O magari, i luoghi in cui fare spesa, che anche senza aumentare le relazioni sociali, ti permettono qualche distrazione anche nelle giornate più piatte.
Ripeto, dopo due anni posso dire che, in certi casi, riesco a sentirm integrata, mentre in altri mi sembra di essere un’ospite che andrà via in pochi giorni.
Tuttavia, non ho intenzione di andare altrove, quindi i vicini si abitueranno, prima o poi, a questa italiana rumorosa che ha sempre qualcosa da ridire? Speriamo!