Ultima modifica 10 Ottobre 2019
Socializzare con gli svedesi non è impossibile: dopo tutto, ne ho sposato uno.
E dopo quasi 10 anni, sono ancora in contatto con la prima svedese che ho conosciuto, la mia amica Helen, proprietaria del bed&breakfast che mi ha accolto al mio arrivo a Stoccolma nel cuore della notte, in quel primo viaggio che ha cambiato così radicalmente la mia vita.
Certo, non si tratta di uno dei posti più amichevoli in cui si possa capitare.
Le persone tendono a essere riservate se non addirittura schive, e in tanti anni qui, ho amici provenienti da varie parti del mondo (Iran, Giappone, Ungheria, Inghilterra, Scozia, Italia, Cile, Uruguay….) ma di svedesi, solo una.
Si può frequentare un intero corso di yoga senza scambiare parole con nessuno, e si può parlare tutti i giorni con la stessa mamma all’asilo senza mai veramente avvicinarsi. Nel corso dei mesi e poi degli anni, non si fa più caso a certe cose. Poi però basta qualche ora di viaggio, e occhi e cuore si riaprono.
Ricordo tutti i miei ritorni in Italia, a casa, nel calore umano e nell’allegra confusione. Che dolcezza!
Un’estate tornai col corpo affamato d’aria, stanco di maglioni, sciarpe e giacche.
Non dimenticherò mai la sensazione del vento tiepido sulla pelle, il contatto morbido e piacevole con l’aria, e i colori più tenui, più mescolati fra loro, meno taglienti: la terra umida color cioccolato, il cielo azzurro chiaro e l’erba verde sul ciglio della strada. In quella particolare occasione ero tornata per dare un esame, e la mattina dopo il rientro ero già in viaggio verso l’università. Mentre camminavo verso la fermata dell’autobus sentivo le dita dei piedi allungarsi e diventare legno e a ogni passo cercare di infilarsi nel terreno come radici: “voglio stare qui”.
E ferma ad aspettare l’autobus sotto il sole, osservo il camion dei gelati che rallenta e si ferma, e il camionista che scende e mi porge un ghiacciolo.
Cosa importano la crisi e i guai quando un estraneo ti regala un ghiacciolo semplicemente perché il sole scotta?
Anni dopo, una sera di novembre, in Svezia faccio il mio secondo test di gravidanza positivo.
La magia si rinnova, un’altra vita cresce dentro di me, e la meraviglia mi travolge, mi allaga.
Al punto che qualche ora dopo, in metropolitana, sento la sensibilità scivolare via dalle gambe, dalle mani, dalle labbra. La vista sfuma in un mare di puntini bianchi: sto per svenire. Sono da sola. Mi alzo e scendo alla prima fermata, Slussen. Riesco a sedermi per terra contro il muro, con voce flebile cerco di attirare l’attenzione dei passanti, decine e decine di persone. “Sono incinta, non sto bene“.
Non si ferma nessuno.
Diversi minuti dopo, quando riesco a tenere su la testa e a parlare più forte, una ragazza giovane e gentile si abbassa, mi chiede cosa succede. Glielo spiego, lei chiama una guardia che suggerisce di chiamare un medico ma ormai sto bene, riesco ad alzarmi.
Lei mi accompagna nel chiosco della stazione, spiega alla barista – un’altra ragazza giovane – cosa è successo, e lei mi regala un tè in un grosso bicchiere di carta. Ho conservato la carta di quella bustina, come il ricordo della
gentilezza e del calore umano, che però ho fatto così fatica a conquistare.
Ma cosa significa, veramente, “integrarsi” in un Paese che non è il proprio? Partiamo da una constatazione dello scrittore turco Orhan Pamuk, da un punto che precede ogni migrazione: cosa significa homeland? Significa protezione, mamma, sicurezza. Lingua madre.
Proprio la lingua madre è il bagaglio emotivo e culturale che ogni persona che cambia Paese porta con sè, intriso di nozioni silenziose su come affrontare il mondo, su come rapportarsi ad esso.
La vita degli expat è straordinariamente simile, da qualunque parte del mondo vengano, in qualunque altra parte approdino, qualunque sia il loro livello culturale.
Un esempio per me significativo sono i pacchi postali: i genitori, le mamme soprattutto, mandano pacchi alle loro figlie e ai loro figli lontani, piccole cose preziose che racchiudono il tepore magico di casa, che rincorrono il filo teso del legame di sangue che la distanza geografica rafforza e rende acutamente consapevole.
Così i genitori di Kyoko le mandano umeboshi (prugne salate) dal Giappone, i genitori di Maryam frutta secca dall’Iran, dal giardino della zia. Mia madre libri, e i miei cioccolatini preferiti, e lecca-lecca, libri e peluche per le mie bambine, le sue nipoti.
Tante volte, arrivando in Svezia, mi sono sentita come un alberello a cui vengono tolti i paletti di sostegno.
Quando siamo in un Paese che non è il nostro Paese d’origine, mancano infinite coordinate culturali di riferimento: ciò che era implicito, ora diventa esplicito, evidente. Ci espone. Questo avviene soprattutto quando abbiamo dei figli, perché diventare madri ci lega ancora più profondamente alle nostre radici, al flusso di vita da cui proveniamo: la nostra famiglia d’origine, la nostra infanzia, il modo in cui siamo state accudite e cresciute.
Infatti le idee intorno alla cura dei bambini sono state l’unico scoglio nella mia integrazione qui.
Anche se sia io che mia figlia maggiore parliamo svedese e conosciamo tutti i personaggi della letteratura svedese infantile e adoriamo le girelle alla cannella e indossiamo abiti di marche svedesi e facciamo pic nic anche sul prato umido e con il vento gelido, c’è qualcosa in me che resiste.
Tengo mia figlia piccola (2 anni e mezzo) per mano lungo la strada.
Al parco giochi, pur non standole addosso, so sempre dov’è. Non sopporterei di non saperlo.
Non le metto magliette estive di una misura troppo piccola su calzamaglie invernali (bucate), oppure la tuta da sci direttamente sulla maglietta estiva, con temperature sotto lo zero.
Così sono stata cresciuta, così “si fa”, così scelgo di fare con le mie figlie (coordinate culturali implicite, espressioni tacite e acquisite di amore e cura). Qui no. Capita spessissimo di vedere bambini vestiti in maniera trascurata, con buchi e taglie sbagliate.
E i genitori al parco giochi non sempre li guardano con attenzione, neanche da lontano.
Qualche settimana fa ho raccolto un bambino piccolo (massimo 2 anni) che era caduto battendo la testa, al parco giochi. Mi sono guardata intorno, nessuna mamma accorreva, e il bimbo urlava e non si alzava da terra.
L’ho tirato su, gli ho massaggiato piano la testa, gli ho chiesto “dov’è la mamma”.
Lui, appoggiato a me, continuava a urlare, poi dal nulla, e senza fretta, è arrivata una donna, sua madre, che senza ringraziare mi ha detto che non aveva visto niente (grazie, me n’ero accorta). Dopo un po’, l’ho vista parlottare con altre mamme e guardare verso di me. Come se avessi fatto qualcosa di male.
Finché sarò così (attenta, pronta) non sarò completamente integrata, sarò quello che sono tutt’ora, una persona che, pur parlando svedese (e che addirittura ha scritto per il blog del centro culturale più importante della città) si sente spesso in dissonanza con lo sguardo scandinavo sul mondo. E le persone intorno a me percepiscono queste note diverse in me, questa musica lontana che resiste e si rispecchia nei miei dubbi e nelle mie arie perplesse davanti (per esempio) ai bambini lasciati per ore sotto la pioggia battente nei cortili degli asili, anche quelli che piangono e che non vedono l’ora di entrare.
Allora, dal punto di vista del Paese d’arrivo, se non è la lingua, e neanche l’acquisizione delle abitudini e di alcuni aspetti della vita quotidiana, cos’è l’integrazione?
Questo è quello che ho capito io, vivendo qui, sentendolo sulla pelle integrazione non è acquisizione, ma rinuncia: non basta imparare la lingua locale, anzi bisogna soprattutto abbandonare la” lingua madre” con tutto ciò che di intimo e peculiare essa porta con sé.
Bisogna – in un certo senso – “uccidere la memoria”, abbandonare la propria tipicità culturale, che si esprime a partire dal rapporto madre-bambino e dalle modalità del prendersi cura, e adottare quelle del Paese d’arrivo.
Quando mi farò i fatti miei al parco dimenticando di avere una o due figlie con me, gli svedesi forse mi sorrideranno di più.
Per il momento, va bene così. Gli inverni sono lunghi e difficili, ma hanno di bello che un po’ avvicinano le persone, tutte senza distinzione, perché tutti siamo stanchi del buio e scivoliamo sul ghiaccio, e tutti siamo un pochino più fragili e bisognosi di luce, in tutti i sensi. Allora farò tesoro di questi attimi di calore, dei sorrisi improvvisi e delle parole scambiate di sfuggita tra i fiocchi di neve, piccoli appigli per raggiungere la primavera.