Ultima modifica 28 Maggio 2019
Quando un libro unisce l’esperienza professionale di educatore all’esperienza personale di padre nasce un racconto ricco di riflessioni sulla paternità.
Ne parliamo oggi con l’autore Alessandro Curti che attraverso alcune domande ci presenta il suo libro “Padri imperfetti”.
Grazie alle storie che ci racconti riusciamo a capire meglio la paternità.
Una costante di queste storie è una domanda scomoda e crudele che sembra aleggiare sui figli delle coppie separate è: “vuoi più bene/preferisci la mamma o il papà?” con la conseguente paura dei figli di ferire uno dei due.
Come si può aiutare i genitori a non cadere in questa pericolosa trappola?
Il “ricatto affettivo” (spesso inconsapevole e involontario) a cui i genitori sottopongono i figli è un meccanismo molto difficile da scardinare perché rappresenta un bisogno di riconoscimento di ruolo di cui “i grandi” hanno bisogno. Non è solo nelle storie estreme che io racconto che questo ricatto è presente: in misura minore (e ovviamente meno deleteria) appartiene un po’ a tutti noi genitori.
Per non cadere in questa trappola pericolosa è importante ricordare che al centro di tutto c’è il bambino, che l’ego di mamma e papà diventa un aspetto secondario.
Nelle storie di separazione (più o meno conflittuale che sia) è invece importante continuare a ribadire quanta fatica faccia un bambino a sentire queste domande – anche se non espresse verbalmente – in ogni azione, in ogni discorso, in ogni atteggiamento dei suoi genitori. Non sono i bambini a dover scegliere un genitore a discapito dell’altro. Non è possibile che facciano questa scelta.
Proviamo solo a pensare a noi nel ruolo di figli: sapremmo dire se vogliamo più bene a mamma o a papà?
Senti il compito di educatore come una missione, una sfida difficile, un lavoro o una soddisfazione? Ti capita il senso di frustrazione se non riesci a risolvere una situazione?
Ho incontrato l’educazione professionale per caso, quando sono stato inviato a fare il servizio civile sostitutivo alla leva militare (si, proprio quella obbligatoria, quella che fa notare che non sono più così giovane) in una comunità alloggio per minori.
In realtà più che un incontro è stato uno “scontro” perché sono stato buttato in un mondo che non conoscevo, che non sapevo nemmeno esistesse.
Un mondo fatto di persone, di dolore, di difficoltà, di sofferenza.
Ma anche di energia, gioia, voglia di cambiare.
Dopo una manciata di minuti dal mio ingresso avevo deciso che quello sarebbe stato il mio lavoro, ma ho avuto la fortuna di poter confermare la mia scelta ogni giorno per i dodici mesi successivi.
Credo che ogni educatore senta, all’inizio della professione, il compito come una missione. Ma è una fase che deve passare, che non può durare a lungo.
Perché il mio è un lavoro, coinvolgente ma sempre un lavoro.
E se non lo considerassi tale non riuscirei ad affrontarlo con la necessaria lucidità.
Alcune volte è una soddisfazione, spesso provo il senso di frustrazione quando le cose non vanno come dovrebbero. È proprio questa la difficile sfida: ricordarmi sempre che sono un eduatore e non un mano, e che le persone con cui lavoro sono dotate di libero arbitrio.
Io posso offrire loro diverse angolazioni da cui guardare una situazione o maggiori strumenti. Starà a loro scegliere se utilizzarli oppure no.
Il lavoro a contatto con le persone e i loro problemi emotivi è anche una grande fonte di stress, oltre che di soddisfazione, come concili questo aspetto con la vita privata? Quante storie e famiglie “porti a casa con te”, nella tua mente e sulla tua pelle.
Porto con me ogni storia che incontro perché da ognuna di esse imparo.
Il processo educativo, infatti, non è lineare ma circolare. L’utente ha possibilità di apprendere, ma anche l’educatore ha questa possibilità.
L’equilibrio con la vita privata non è sempre semplice, ma in questo la paternità mi ha aiutato molto: da quando è nata la mia piccola entro in casa e chiudo fuori dalla prota il resto del mondo perché voglio concentrarmi su di lei.
E sulla sua mamma.
Quanta intelligenza ci vuole per capire che bisognerebbe anteporre il bene dei figli agli egoismi, problemi, ferite personali dei genitori?
Non credo sia una questione di “intelligenza” quanto di sensibilità e di responsabilità. Diventare genitore è un atto d’amore e in amore – appunto – si dona incondizionatamente. Se poi si riceve anche è bello, ovviamente.
Ma è anche una questione, probabilmente, di “passato” e di “esperienze”: ciò che siamo stati influisce su ciò che siamo e su ciò che saremo.
L’educazione che abbiamo ricevuto, le relazioni che abbiamo creato, l’affetto che abbiamo ricevuto e respirato: tutto questo fa parte del nostro bagaglio che, volenti o nolenti, ci portiamo dietro.
L’aver a che fare ogni giorno con famiglie e padri diversi ti aiuta a capire che tipo di padre vuoi essere per tua figlia o ti chiarisce che tipo di padre non vorresti essere?
Certamente. Come educatore ho imparato che solo l’esperienza può davvero insegnare, perché porta con sé un messaggio forte.
Quando sono diventato padre (e ho deciso che volevo “essere” un padre) ho realizzato che non esiste un manuale e allora ho attinto a ciò che poteva aiutarmi: l’osservazione delle diverse tipologie ed esperienze di paternità che mi circondavano.
Sia quelle incontrate nella mia professione che nella mia vita privata, per prima la paternità che conosco meglio: quella che ho vissuto come figlio.
Lavorare con le famiglie e con i padri mi ricorda ogni giorno che tipo di padre voglio cercare di essere. E anche che tipo di padre non voglio essere.
“…Dovresti smetterla di vederla come una battaglia.
Dovreste smetterla entrambi. Smetterla di fare i bambini e comportarvi da adulti, nel rispetto dell’unica bambina di questa situazione che, alcune volte, è costretta ad essere più adulta di voi”
Essendo anche padre, oltre che educatore, riesci sempre a non schierarti con l’uno o l’altro genitore per tutelare il benessere dei figli in queste situazioni?
Non è difficile evitare di schierarsi se si parte dal presupposto che entrambi i genitori hanno (chi più e chi meno) delle responsabilità nelle separazioni in atto.
E poi io non lavoro sulle separazioni, ma sul recupero delle relazioni in funzione del benessere dei figli. In quest’ottica è più semplice tenere al centro i bambini.
E forse è anche il messaggio forte che passo come educatore: se io, estraneo, riesco a mettere al centro del mio operato i figli forse possono farlo anche i genitori. O No?
Dici che noi donne abbiamo più tempo e modi per entrare dentro al concetto di maternità, mentre per i padri la consapevolezza si raggiunge in un momento, alla nascita del figlio, vuoi dirci due parole su questo:” Quando mia moglie mi ha mostrato sorridente quel cavolo di termometrino con le due lineette rosa ho sentito un brivido lungo la schiena. Un brivido freddo”.
Non fraintendete: avevamo deciso di diventare genitori, quindi era un annuncio atteso. Però il brivido è arrivato ugualmente.
Ho cominciato a leggere, ho cercato su internet, ho partecipato al corso pre-parto.
Ho parlato con tutti gli amici che erano già diventati genitori, ho assistito a tutte le ecografie, ho parlato alla pancia di mia moglie e l’ho scrutata in attesa di percepire qualche movimento. Le sono stato al fianco durante il travaglio e ho passeggiato nervosamente nel corridoio durante il parto (si, non ce l’ho fatta ad entrare! Sono un fifone emotivo in fondo!)…
Ma il vero senso della mia impreparazione è palpabile in ciò che ho appena raccontato: parlavo ad una pancia, non ad una futura bambina.
Poi l’ho vista.
Ed è in quel momento che c’è stato il vero cortocircuito, come quando giocando a filpper si legge la parola TILT. In quel momento (non prima e non dopo) ho percepito la realtà: mia figlia era vera, reale, davanti a me. E lo sarebbe stato per sempre.
Quando racconto questa esperienza alle mamme mi guardano con dolcezza, come se fossi un idiota imbarazzante. Ma per me è stato così: nonostante la mia professione e il tentativo di prepararmi al meglio sono diventato padre solo in quel momento.
Non prima e non dopo.