Ultima modifica 10 Ottobre 2019
Monica Volta mi ha consigliato la lettura di questo articolo: Li chiamiamo expat, ma sono migranti .
Me lo sono letto. Poi l’ho riletto una seconda volta ma continuava a sfuggirmi qualcosa.
L’articolo in sé non ha molto senso e contiene un errore grossolano: la parola EXPAT è una contrazione della parola inglese expatriate= espatriato: colui che vive in un paese straniero. Migrante non significa strettamente vivere in un paese straniero, ma semplicemente spostarsi, spostamento che può avvenire anche all’interno del proprio paese d’origine. Come i nostri nonni che dalle terre del sud si sono spostati verso le fabbriche del nord. Expat invece prevede che lo spostamento avvenga oltre i confini del proprio paese.
Forse quello che voleva dire l’autore dell’articolo era EMIGRANTE che, effettivamente, significa chi si sposta, definitivamente o temporaneamente, in un paese straniero. Quindi una lettura veloce ad un vocabolario, prima di scrivere, forse l’autore avrebbe potuto darla.
Detto questo, messa la vocale giusta al posto giusto, dico la mia sul contenuto di questo articolo e di molti altri simili. Si tratta di un articolo “riempitivo”: pubblicati per riempire uno spazio quando non si ha di meglio da scrivere. Scritto da qualcuno che non ha mai provato ad allontanarsi per un periodo di tempo prolungato dalla propria terra, dalle proprie comodità e dalle proprie abitudini, nonché dalla propria lingua. Vi dico una cosa: se pensate che emigrare sia facile, che tutto sia una passeggiata, che le strade per voi saranno lastricate d’oro, statevene a casina vostra perché prenderete una cantonata.
Già. Perché emigrare non significa obbligatoriamente che si va a fare la bella vita, che si diventa improvvisamente ricchi, come molti pensano (anche la mia mamma!). Ma nemmeno che andiamo a fare gli spazzini o a raccogliere pomodori; come detto nell’articolo: “Si adattano a fare lavori umili e dequalificati che qui non si sognerebbero mai di fare, anche solo per il piacere di farli senza essere pagati in nero“. Oddio, magari qualcuno c’è anche. Nell’articolo si vuole generalizzare un po’ troppo. Quelli sì, sono i popoli che fuggono dall’Africa, dalla Siria, verso l’Europa o dal Sud America verso gli Stati Uniti e il Canada, per fuggire a guerre e governi oppressori e si adattano a fare lavori umili perché comunque sono meglio di una morte certa!
Poi ci siamo noi, gli expat, gli emigranti dall’Italia verso l’Europa, l’Australia e l’America. Noi non fuggiamo, ma prendiamo un aereo o un treno e abbiamo dei documenti regolari. Dobbiamo avere dei documenti. Noi andiamo a fare il nostro lavoro, quello per cui abbiamo studiato e per il quale forse non saremo lautamente ripagati, ma di sicuro alla fine saremo gratificati.
Ma c’è qualcosa che ancora non mi quadra di questo e di tutti gli articoli di questo genere: ma perché dobbiamo essere etichettati con qualche nome per forza? Perché dobbiamo vergognarci per aver oltrepassato i confini dello Stato Italiano in cerca di aria nuova? E’ capitato. Abbiamo colto al volo l’opportunità di poter sperimentare cosa significa davvero vivere in un paese straniero, imparare una nuova lingua e una cultura nuova. Abbiamo dato ai nostri figli un’opportunità grandiosa. Abbiamo insegnato loro che, nonostante siano nati in Italia, nonostante parlino regolarmente italiano con noi, saranno per sempre liberi di solcare le terre di questo grande mondo. Saranno cittadini del mondo, italiani.
Buffo: quante volte ci è capitato nella nostra vita, a scuola o sul lavoro, di incontrare, un americano o un australiano, e di dire “Ohhh che figo! Chissà che belle cose vedi in giro per il mondo” e poi non possiamo accettare che il nostro amico, il vicino di casa, o un perfetto sconosciuto faccia la stessa cosa che ha fatto quel tipo figo: andare a vedere le cose fighe in giro per il mondo.
Non è che volete attribuirci le vostre etichette solo per levarvi di dosso il senso di colpa perché, in fondo, voi il coraggio di fare quello che abbiamo fatto noi non l’avrete mai?
Renata Serracchioli