Ultima modifica 29 Settembre 2016
E’ lacerante non essere madre per chi lo desidera. E questo dolore è una sofferenza che abbrutisce. Si insinua tra le pieghe dell’anima e ti rende quello che non sei. Brutta. Brutta dentro. Una brutta persona che prova brutti sentimenti.
Ci si scopre, inaspettatamente invidiose.
Tu che non avevi mai provato prima questo sentimento, che non ne sapevi neanche la provenienza, tu che odi le ingiustizie e gioisci per la felicità altrui, ti scopri, improvvisamente, a desiderare quello che le altre hanno, mentre tu non riesci ad avere. Quel bisogno di amare incondizionatamente si trasforma così in un sentimento di privazione e come un boomerang torna indietro, privandoti. Privandoti della capacità di gioire della fortuna altrui, della realizzazione di sogni che tu non riesci a costruire. Togliendoti la serenità, quell’attitudine a vedere il bicchiere mezzo pieno a vederci dentro le bolle di sapone, o le nuvole, o cieli tersi.
E allora il desiderio diventa frustrazione. E allora ti isoli, eludi le possibilità di incontro con mamma e bambini e ti vergogni dei sentimenti che provi ma non riesci a cacciare indietro le lacrime davanti all’immagine di una mamma che stringe suo figlio al cuore. Quel rancore provato, quella piccola gelosia è roba umana. Non è malevolenza nei confronti dell’amica, o della collega, o della vicina di casa che aspetta. Non è rivalità. E’ semplicemente vuoto e incapacità nel non sapere come colmare il pozzo che vedi dentro te. Di corsa, ieri l’altro, mentre andavo a fare le ultime spese per la cena dopo il lavoro ho rivisto la mamma di un bimbo che faceva il corso di lettura di fiabe insieme con noi. Incinta del secondo figlio. Parlando poi con una mia collega mi dice che aspetta la sorella di suo figlio. Mentre rispondo al telefono e mio marito mi comunica che una cara amica è alla sua seconda gravidanza. E mi scopro di nuovo ferma, incapace di gioire per la felicità. Mi scopro di nuovo fragile, di nuovo messa agli angoli di un ring che vede la mia sconfitta.
Perché spero ancora, perché non si smette mai di credere nei miracoli, perché ho sempre sperato di non fare di mio figlio, un figlio unico. Perché sogno, da sempre, una casa piena di caos, risa, confusione, bambini, nonostante la stanchezza, malgrado il verde della mia pelle, sebbene il sonno perso. Io quei figli li desidero. Non mi sento in colpa per questo, ma mi sento triste per non riuscire più a essere felice per le altre. E questo mi rende una persona che non voglio essere.
La vita è e resta bella e a render la più bella è la nostra capacità a scoprirne i lati luminosi. La poesia delle gocce di pioggia sul tetto mentre il tuo compagno ti porta il caffè a letto e riscopri gesti che sono abbracci, ridere di cose irriverenti anche quando ti corrodono l’anima e rimestano dolori, anche quando il fiato trattiene la paura. L’amore che le parole non possono contenere. Voglio ancora stupirmi dei doni delle notti, del Natale, di un giorno di amore bello, di un bicchiere di sole. Ho conosciuto una donna meravigliosa i cui spigoli sono i più tondi del mondo che ha perso tutti i suoi bambini nel ventre e che dice una grande verità: il dolore abbrutisce o nobilita. E ha ragione. Ha ragione da vendere. Quando ci assale il senso di inadeguatezza, il senso di sterilità di chi crede di non riuscire a far passare la vita attraverso nulla di se stessa, non dalle idee, non dalle mani, né attraverso la memoria, né tramite la fantasia, bisogna fermarsi. Fermare e pensare che il male sentito non è minore se siamo in molte a condividerlo. Non appaga la formula mal comune mezzo gaudio.
Sapere che altre provano lo stesso dolore, sapere che i fallimenti le logora, quanto logora noi, non ci rende più forti. Semmai ci rende più forti sapere che qualcuna ce l’ha fatta, che c’è luce oltre il buio, che a volte sceglie la vita al posto nostro. Sì perché nel cercare disperatamente la vita la meritocrazia non c’entra. Non c’entra desiderare il figlio con più forza di un’altra, non c’entra mangiare meglio, dormire di più, pregare con più vigore. C’entra che a volte va, altre no. Per statistica, perché alcune sì e altre no, perché la vita è meravigliosa e crudele, a volte.
A volte nasci con gli occhi neri, anche se li vorresti blu, a volte ti si rompe la lavastoviglie proprio prima del pranzo con tua suocera che tiene tanto al servizio di porcellana cinese che hai messo a lavare, o spunta uno schifoso scarafaggio dal buco della doccia attraverso cui vorresti sprofondare per non essere capace di generare. A volte. “A volte” diventa “spesso” per qualcuno, o “quasi mai” per altri, ma tutti, nessuno escluso, prima o poi cozzeranno con il lato grigio della vita. E sapere che succederà non deve rallegrare le nostre giornate. La fortuna di un’altra donna non è la mia sfortuna. Lo voglio ricordare.
Ogni volta che rincorrendo un desiderio dovrò addomesticare quel latente, subdolo, graffiante sentimento, simile alla nostalgia. E voglio credere che sentirmi vicina e profondamente empatica alle persone, alla vita, alla bellezza, mi rende migliore. Anche se, a volte, fa male.
Raffaella Clementi
quando ti leggo spesso piango, come adesso, perchè riesci con le parole a dare un senso a tutto quel caos che mi abita e che non riesco a contenere. Grazie
Come hai ragione Raffaella…questo tuo articolo cade proprio come “il caco sui maccheroni” per me. Mi riscopro una brutta persona…dentro. Nel profondo. Devo ritrovarmi, devo ritrovare la gioia di vivere che spesso, troppo spesso, ho sfiorato senza afferrarla mai. Grazie!