Ultima modifica 23 Gennaio 2020
In questi giorni in rete è rimbalzata la notizia di una giovane donna, Luisa, che con il forte desiderio di ricerca delle origini. Una donna cha cercato la propria mamma biologica.
La rete, però, come in ogni saga mediatica, ci ha narrato anche gli sviluppi, generando un ciclone di emozioni e opinioni antitetiche, animate da tanti diversi punti di vista.
Tutto ciò mi interpella, forse perché sono madre di due figli adottivi che si interrogano e mi interrogano sulla mamma che gli ha dato la vita.
Ho ripensato a “Lion, la strada verso casa”, film uscito nel 2016.
L’ho guardato con piacere, soprattutto perché, in fondo, ci ha raccontato che le storie possono avere un lieto fine, sebbene drammatiche.
La storia di questa giovane donna in cerca delle proprie origini, invece, ci propone il triste epilogo di un cerchio che non si chiude. Una speranza che si spezza, un cuore che si strappa di fronte ad una verità cruda come un rifiuto.
Nel film, al centro c’è la verità. Una verità che gli adulti sembrano in grado di gestire.
Una verità che hanno scelto insieme (padre e madre) e che portano vanti insieme, accogliendola anche nei suoi risvolti più duri.
Ciò sembra rendere la scelta adottiva una scelta pura, priva della spinta ad avere un figlio a tutti i costi perché non concesso nella carne. Priva di urgenze interiori nate da ferite, una scelta dettata dal desiderio di sentirsi utili all’umanità, di “fare del bene” condiviso nella coppia.
Nel film è apprezzabile l’entrare nel dolore senza indugiarci troppo.
Sono apprezzabili i tratti a volte più evocativi che descrittivi (come quando si parla di Mantosh con piccoli bozzetti senza insistenze) tuttavia, a mio avviso, mancano due presupposti fondamentali che, forse, nella storia del protagonista, in quella vera intendo, sono stati così connotati, ma nella realtà di moltissime coppie non lo sono: mancano la ferita dell’infertilità e, soprattutto, quella dell’abbandono.
Pertanto la verità ha un peso totalmente diverso.
Se la mamma di Luisa si nasconde di fronte alla domanda angosciante della figlia che vuol conoscere il suo volto, la mamma di Saroo, invece, può rassicurarlo oltre le sue aspettative. Può vantare (non lo fa con tono di vanto, per fortuna) una scelta assoluta, per cui ha sempre amato lui e suo fratello nonostante le lacrime, li ha apprezzati per quello che sono.
E’ la mamma ideale, accogliente, disinteressata, sempre pronta a giustificare, a lasciare aperta la porta.
Quale tra noi mamme che ci arrabbiamo, stanchiamo, disorientiamo, non vorrebbe essere come lei?
Come mamma adottiva riesco, in fondo, a perdonare questa prospettiva, perché è a lieto fine, dona speranza, riscatta le fatiche dei genitori adottivi nel messaggio rassicurante lasciato in segreteria da Saroo e nell’inserto finale dalla realtà. Relega ad un ruolo circoscritto e positivo quello della madre biologica: chiudere un cerchio, sanare un buco, rispondere agli interrogativi senza scomporre nulla del presente.
In fondo è l’ideale che si realizza: nessuno si fa male, tutti sono contenti, ciascuno nel proprio posto, Saroo torna a vivere, la mamma biologica sa che ora è vivo, la mamma adottiva non lo perde.
Nessuno si fa male, appunto.
Assolta è la mamma che ha dato la vita anche per non aver risposto agli appelli del tribunale, in quanto non la avevano mai raggiunta. Assolta per aver lasciato solo Saroo (è lui che si è allontanato, sta a lui chiedere perdono per aver disobbedito).
E’ pura, senza colpe, senza gelosie, senza recriminazioni, senza interferenze sul presente.
La mamma di Luisa, invece, sembra colpevole, colpevole di averla abbandonata, colpevole di continuare a rifiutarla ancor oggi dopo 29 anni.
Ma se il dolore non sanato è una colpa, se l’incapacità di guardare in faccia una ferita, se il bisogno di silenzio viene giudicato, forse stiamo vivendo nell’ideale. Forse ci siamo illusi che le storie drammatiche debbano finire bene, che tutto si possa risolvere, che il passato si possa sanare.
Nella realtà non sempre è così.
Lion è una bella storia, ma carica di ideale.
Se attinge alla realtà, come fanno pensare le immagini del 2013 inserite, è la narrazione di una storia a lieto fine. Se non è andata proprio così, almeno così ce la hanno voluta raccontare. Ci ha commosso, perché, in fondo, abbiamo bisogno di belle storie a lieto fine.
Non dobbiamo, però, dimenticare, che una bella storia non cancella né risolve i desideri profondi di un figlio che cerca le proprie origini. Le sue domande non è detto che possano trovare risposta, perché nella vita non tutti trovano la strada verso casa, non tutti hanno percorso quella strada tante volte e non tutti hanno una casa che li attende.