Ultima modifica 29 Settembre 2016
Da quando ho scritto “Lettera a un bambino che è nato”. Storia di una procreazione medicalmente assistita” spesso mi arrivano delle mail. Più che di mail si potrebbe parlare di vere e proprie lettere.
Lettere d’amore. Amore verso quel bambino che tarda a venire, amore verso la vita che ascolta, amore verso un futuro pieno di possibilità, o verso un compagno/a.
Alcune di queste lettere, dalle forme tecnologiche avanzate, sotto forma di mail, di messaggi su social network, di passa parola, lasciano il segno e danno senso a quello che ho scritto.
Al mio libro e a tutto quello che scrivo.
Spesso, si scrive di un’esperienza o di un dolore per renderlo più accettabile, per non farsi sopraffare, per il bisogno di attribuire significato alle cose, per se stessi e per gli altri. Allo stesso tempo però, si rischia di violare un’intimità, di rendere pubblico del privato importante. Mi sono interrogata più volte sulla bontà delle mie intenzioni, che restano comunque le intenzioni di una scrittrice e quindi come tali, tendono a restituire al mondo delle emozioni personali, sperando che siano condivise e vissute come proprie.
Alcune donne diventate mamme grazie ad una pma mi hanno scritto ringraziandomi per aver dato voce a parole mai dette. Altre, in cerca di figli che non arrivano, mi hanno espresso una riconoscenza profonda per averle capite, per averle descritte, perché la sofferenza provata e narrata è la stessa loro e rileggersi dentro le ha rese meno sole. Questa riconoscenza, questa energia, mi fa pensare a un testimone, passato di mano in mano da chi ce l’ha fatta a chi sta ancora cercando. E come nelle migliori staffette, è bello pensare di poter contribuire, anche solo portando sollievo, alla vittoria di tutte. La vittoria è un esito positivo, ma è anche un esito negativo da cui ripartire, da cui rinascere, come persona nuova e come coppia.
E allora penso al testo di una canzone di Roberto Vecchioni “Lettere d’amore” e all’ articolo di Anna che, nonostante sette angeli salutati riesce a vedere la vita intorno, che germoglia, che s’irradia, che filtra, che riesce a passare con forza quando vede fessure nei nostri cuori e a farci credere sempre che c’è più vita fuori di quanta i nostri occhi spenti, spesso non riescono a vedere.
E quando lo capiamo, è, a volte, troppo tardi.
A voi tutte…
“Fernando Pessoa chiese gli occhiali
e si addormentò
e quelli che scrivevano per lui
lo lasciarono solo
finalmente solo…
così la pioggia obliqua di Lisbona
lo abbandonò
e finalmente la finì
di fingere fogli
di fare male ai fogli…
e la finì di mascherarsi
dietro tanti nomi,
dimenticando Ophelia
per cercare un senso che non c’è
e alla fine chiederle “scusa
se ho lasciato le tue mani,
ma io dovevo solo scrivere, scrivere
e scrivere di me…”
e le lettere d’amore,
le lettere d’amore
fanno solo ridere:
le lettere d’amore
non sarebbero d’amore
se non facessero ridere;
anch’io scrivevo un tempo
lettere d’amore,
anch’io facevo ridere:
le lettere d’amore
quando c’è l’amore,
per forza fanno ridere.
E costruì un delirante universo
senza amore,
dove tutte le cose
hanno stanchezza di esistere
e spalancato dolore.
Ma gli sfuggì che il senso delle stelle
non è quello di un uomo,
e si rivide nella pena
di quel brillare inutile,
di quel brillare lontano…
e capì tardi che dentro
quel negozio di tabaccheria
c’era più vita di quanta ce ne fosse
in tutta la sua poesia;
e che invece di continuare a tormentarsi
con un mondo assurdo
basterebbe toccare il corpo di una donna,
rispondere a uno sguardo…
e scrivere d’amore,
e scrivere d’amore,
anche se si fa ridere;
anche quando la guardi,
anche mentre la perdi
quello che conta è scrivere;
e non aver paura,
non aver mai paura
di essere ridicoli:
solo chi non ha scritto mai
lettere d’amore
fa veramente ridere.
Le lettere d’amore,
le lettere d’amore,
di un amore invisibile;
le lettere d’amore
che avevo cominciato
magari senza accorgermi;
le lettere d’amore
che avevo immaginato,
ma mi facevan ridere
magari fossi in tempo
per potertele scriver”
Raffaella Clementi