Ultima modifica 18 Giugno 2018
Nel turbinio della cancellazione del divieto di applicazione delle tecniche di fecondazione eterologa, nel trambusto dell’indecisione politica su come regolare il sistema normativo italiano (che, di fatto, è idoneo al ripristino della tecnica già da molto tempo), nell’agitazione delle coppie desiderose di accedere alla tecnica e nello scompiglio di chi, ancora e immotivatamente combatte questa tecnica, si fa strada il bisogno, forse meno urlato, ma di grande importanza per chi è coinvolto in tali procedure, di far inserire nei livelli Lea (Livelli Essenziali di Assistenza), la sterilità e l’infertilità, riconoscendone il carattere di patologia.
Questo significherebbe eliminare le disparità regionali che creano discriminazioni, ma soprattutto, significherebbe attribuire alla difficoltà alla procreazione, uno stato, una condizione riconoscibile e visibile. Quasi tutte le donne infertili, o sterili, si riconoscono come diverse, difettate, malate di una malattia silente e ambigua che le porta a leggersi colpevoli. Responsabili del fallimento dell’atto creativo per antonomasia. Il non saper far figli mina la percezione delle proprie capacità. Ci si sente, in qualche modo, sbagliate.
La patologia attribuisce alla persona malata una condizione “sopraggiunta”, una sorta di status piombato, sfortunatamente, sulla malcapitata, senza che la stessa abbia voce in merito. Diversa, invece, è la sensazione della donna infertile. E’ qualcosa di più profondo, di più intimo. Non ci si sente, malate, piuttosto, errate. Venute male, in un certo senso incapaci di essere riaggiustate e per questo, in difetto. Ecco perché ci sono cose che non si dicono. Non si parla volentieri della propria sterilità quando l’amica, la sorella, la vicina, partorisce con facilità e mette al mondo creature meravigliose. Ecco perché si tacciono le emozioni, sentimenti del tutto umani che però potrebbero essere fraintesi.
“Quel bisogno di amare incondizionatamente si trasforma così in un sentimento di privazione e come un boomerang torna indietro, privandoti. Privandoti della capacità di gioire della fortuna altrui, della realizzazione di sogni che tu non riesci a costruire. Togliendoti la serenità, quell’attitudine a vedere il bicchiere mezzo pieno a vederci dentro le bolle di sapone, o le nuvole, o cieli tersi.
E allora il desiderio diventa frustrazione. E allora ti isoli, eludi le possibilità di incontro con mamma e bambini e ti vergogni dei sentimenti che provi ma non riesci a cacciare indietro le lacrime davanti all’immagine di una mamma che stringe suo figlio al cuore.
Quel rancore provato, quella piccola gelosia è roba umana. Non è malevolenza nei confronti dell’amica, o della collega, o della vicina di casa che aspetta. Non è rivalità. E’ semplicemente vuoto e incapacità nel non sapere come colmare il pozzo che vedi dentro te”.
Credo che sarebbe davvero importante sotto il duplice aspetto, quello sanitario e quello emotivo, inserire le patologie dentro i livelli minima di assistenza. Significherebbe restituire alle donne infertili o sterili la capacità di leggersi, non più come difettate, ma semplicemente come persone toccate da una sorte, malevola, passeggera.
Raffaella Clementi
Hai spiegato perfettamente come ci si sente nei confronti delle altre…
Grazie