Ultima modifica 18 Giugno 2018

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha definitivamente rigettato il ricorso presentato dal Governo Italiano contro la sentenza del 28 agosto scorso, di cui avevamo subito parlato, di accoglimento del ricorso di due coniugi italiani, a cui era stato vietato l’accesso alle tecniche medicali di fecondazione e alla diagnosi preimpianto.

Erano capaci di procreare naturalmente, ma chiedevano la fecondazione in vitro e la selezione, prima dell’’impianto nell’utero materno, dei soli embrioni che non fossero affetti dalla malattia di cui i genitori erano portatori sani, la mucoviscidosi o fibrosi cistica.

Si tratta di una malattia ereditaria molto grave, che evolve più o meno rapidamente verso una grave insufficienza respiratoria, di cui era malata anche la prima figlia della coppia e che affliggeva anche un secondo figlio, tanto che i genitori avevano deciso di interrompere volontariamente questa seconda gravidanza. Proprio allo scopo di evitare di nuovo il travaglio di questa scelta tragica, avevano chiesto la P.M.A., che  era stata negata in applicazione degli artt. 4,5 e 14 della legge 40/2004 e del divieto di indagini sugli embrioni di tipo non osservazionale, previsto dal D.M. n. 15165 del 21 luglio 2004.

La Grand Chambre della Court Européenne des Droits de l’Homme ha infine posto il sigillo definitivo sulla decisione di illegittimità di questo complesso di norme, per violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, letto nel senso per cui è diritto inviolabile dagli Stati quello di formarsi una famiglia diventando genitori genetici, e dunque va tutelato “il desiderio dei ricorrenti di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori sani e di ricorrere, a tal fine, alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi preimpianto”.

Non è una scelta egoistica, come sostengono i tanti che si affrettano a condannarla, e Raffaella Clementi ci ha spiegato magistralmente le sofferenze e le difficoltà che nasconde.

Posso solo aggiungere che, davanti alla Corte di Strasburgo, non è valso a nulla il ricorso del Governo italiano, che si può leggere qui, assieme al testo della sentenza, fondato non solo su questioni procedurali ma soprattutto sull’apprezzamento secondo cui la decisione di primo grado si sarebbe illegittimamente spinta fino a sindacare la coerenza della normativa italiana sulla P.M.A. con la legge sull’aborto.

Questo era il nucleo fondamentale della decisione, perché a norma dello stesso art. 8 CEDU quel diritto a diventare genitori genetici può essere limitato per legge, ma solo quando la limitazione “costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria  per … la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Se l’esigenza da tutelare fosse la salute del bambino, non si spiega per quale motivo sarebbe ammissibile procedere ad un aborto terapeutico quando il feto ha addirittura superato i 90 giorni di gestazione, ma non sarebbe ammissibile impiantare solo gli embrioni non portatori di una specifica malattia genetica, che sono a uno sviluppo infinitamente meno avanzato. Allo stesso modo, costringere la donna all’impianto e quindi alla scelta dolorosa dell’aborto espone la sua salute fisica e psichica ad un danno evidente, che può essere evitato con la selezione degli embrioni. E neppure di eugenetica si tratta, perché la selezione è diretta ad escludere solo la specifica patologia di cui sono portatori i genitori, che non domandano tutela del diritto ad avere un figlio sano, e restano esposti al rischio che il figlio sia affetto da qualsiasi altra patologia.

Nelle more del giudizio il Tribunale di Cagliari aveva autorizzato un’altra coppia alle indagini pre-impianto, statuendo che rientra nel diritto al consenso informato la pretesa di conoscere le patologie di cui è affetto l’embrione, e di accedere alle più avanzate tecniche medico-sanitarie, proprio in applicazione dello stesso art. 8 CEDU e degli art. 2, 13 e 32 della nostra Costituzione. Non è stato, dunque, sancito il diritto ad avere a tutti i costi un figlio e un figlio sano, come alcuni commentatori hanno scritto. Ma il diritto a decidere, dopo adeguata informazione, se impiantare o meno un embrione affetto da una determinata malattia, piuttosto che rimandare la scelta ad un successivo intervento di interruzione della gravidanza.

La legge 40 dimostra ancora una volta le proprie falle: nata come un compromesso, mentre tutela l’embrione costringe la madre a rischi e sacrifici ingiusti, in parte limitati dalla sentenza di incostituzionalità dell’obbligo di impianto contemporaneo di tre embrioni che esponeva le donne giovani ad una gravidanza trigemellare pericolosissima e quelle meno giovani ad una seria probabilità che nessuno dei tre embrioni nascesse.

Resta, sulla carta, il divieto della fecondazione eterologa, che costringe le coppie ad itinerare per gli Stati europei che, quasi tutti, hanno discipline che la consentono. Contemporaneamente si ammettono però alla fecondazione artificiale le coppie conviventi senza nessun controllo di questo requisito, cosicché basta dichiararsi conviventi per avere un figlio in provetta. Ecco il modo per evitare di arrivare fino negli USA per ottenere “un utero in affitto”, o per superare la sterilità maschile ricorrendo all’inseminazione con gameti di un terzo, fintamente convivente con la madre.

E visto che, in fondo, quando si partorisce nessuno domanda se quel figlio è nato da inseminazione artificiale e che non è ancora stato attuata l’anagrafe nazionale del S.S.N., basta che alla nascita quel bambino sia riconosciuto da uno solo dei genitori e poi adottato con adozione speciale dall’altro membro della vera coppia, per ottenere, in Italia, e sfruttando le pieghe della legge, la fecondazione eterologa.

Per questi motivo, condivido in pieno le parole con cui, presentando gli atti di un Convegno sul tema, Guido Alpa, scrisse la condanna di questa scelta irragionevole di compromesso di un legislatore coi paraocchi:

“La legge sulla procreazione assistita è stata scritta in modo pedestre, concepita in termini non sistematici, è frutto di una visione miope dei diritti della persona, e, incarnando un modello retrivo, si è segnalata all’attenzione degli studiosi del diritto comparato per il suo isolamento nel contesto europeo”.

 

Stefania Stefanelli

3 COMMENTS

  1. Lo stato sedicente laico italiano è ancora e purtroppo inesorabilmente schiavo dei precetti della Chiesa. Si da per assodata la malafede dei genitori “cattivi” che ricorrono all’aborto e si crede che tutti debbano accettare obbligatoriamente l’enorme fardello di un figlio destinato a morte prematura, anche quando, come in questo caso, la medicina può impedirò.
    Come se non bastasse la coscienza di ognuno di noi, ateo o credente, a punirci sufficientemente, anche quando convinti, lasciandoci tutta la vita l’onere di aver deciso di non far nascere il sangue del nostro sangue.

  2. Già. La legge costringe questi genitori proprio a rischiare di affrontare più e più volte il travaglio dell’aborto, finché la sorte o la natura non gli fa dono di un figlio non affetto dalla stessa malattia di cui sono portatori. Ancora una volta possiamo contare, come per il parto anonimo e la responsabilità genitoriale, sulla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo o sulla Corte Costituzionale, per avere leggi eque o almeno razionali. Personalmente, ho grande fiducia nel lavoro di armonizzazione che la Corte EDU sta conducendo, lontana dalle più disparate pressioni che raggiungono, invece, i rappresentanti elettivi.

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