Ultima modifica 15 Luglio 2019
Dieci anni di ruolo quest’anno, tutor di una tirocinante, fine di un ciclo e, forse, inizio di un altro nella stessa, o in un’altra, scuola. Tempo di cambiamenti e bilanci.
Quest’anno è il decimo che sono maestra. E, come detto più volte, mi piace più definirmi così, che non “insegnante di scuola primaria”. Essendo ormai anche “tutor” di una ragazza che si appresta a diventare insegnante, finendo nuovamente un ciclo e accompagnando i nuovi alunni verso la scuola media, quest’anno è davvero l’anno dei bilanci.
Non sono diventata maestra per scelta, direi per caso. Tuttavia, come spesso è accaduto nella mia vita, quel “Caso”, che ha deciso molti eventi importanti, sapeva bene, molto meglio di me, quale fosse la cosa migliore per la mia vita.
Avevo deciso che mai e poi mai sarei diventata insegnante. Vengo da una famiglia in cui tutti gli uomini sono ragionieri e le donne maestre e professoresse. Una mia cara zia mi aveva regalato, fin dalla terza media, le sue guide didattiche, oro a poterle ritrovare e utilizzare adesso, ma all’epoca ero davvero lontana dall’idea di insegnare, tanto che sono state buttate chissà dove e dimenticate in qualche anfratto della mia soffitta.
E, poi, l’Università, il lavoro in una grande azienda e il sogno di girare il mondo e sfuggire a quel destino che sembrava aver attaccato tutte le donne della mia famiglia, fino al telegramma e alla chiamata dal Ministero, che mi proponeva un posto di ruolo, senza aver fatto praticamente nessuna supplenza.
Il primo anno ho pianto sempre. Entravo in classe e piangevo. In verità, il mio malessere proveniva da una sensazione di asfissia nell’entrare in quell’aula spoglia con ventiquattro bambini di prima elementare urlanti e che faticavo a gestire. Disagio che alcuni bambini avevano intuito benissimo e che non perdevano occasione di mettermi alla prova e sfidarmi.
Ero disperata, terribilmente stanca e convinta di aver sbagliato mestiere. Mi chiedevo quale fosse la strategia migliore per attirare l’attenzione, l’attività più carina, quale fosse l’atteggiamento “pedagogicamente” più corretto, per rispondere a un bambino che non volesse lavorare ma, alla fine della giornata, mi portavo a casa solo ansia e frustrazione.
Le colleghe mi dicevano che sarebbe andato tutto meglio, appena mi fossi fatta vedere più dura e più incisiva: dovevano capire chi comandava e non ci sarebbe stato più alcun problema.
Diventare “più cattiva”, più dura e alzare il tono di voce, per farmi sentire dalla classe intera, non faceva altro che farmi rendere più odiosa, anche con me stessa. Gli alunni del mio primo ciclo, ormai alle superiori, mi raccontano ancora di come una volta avessi messo delle note ad alcuni di loro, senza che sapessero ancora leggere.
Poi, è arrivata la rivelazione. Qualcosa mi fece svegliare da quell’incubo. Forse, la sensazione di aver toccato il fondo e non aver altra possibilità che risalire. Le mie difficoltà non erano tanto create dall’inesperienza o dal non aver mai fatto praticamente neanche un giorno di supplenza, ma dall’aver perso di vista che la scuola è fondamentalmente relazione con i bambini.
Pretendevo, come insegnante, che i bambini rimanessero il più possibile incollati sulla loro sedia e rispondessero, nella maniera più ordinata e precisa possibile, alle mie richieste.
Oggi, dopo dieci anni, sono sicuramente cresciuta e cambiata e le crisi hanno ripensato e ricostruito il mio modo di essere come insegnante e come donna. Credo che un insegnante, specialmente di scuola primaria, debba condurre i bambini nella vita e introdurli nel loro posto nel mondo.
Oggi credo che una lezione funzioni se riesco a darmi una base di partenza, ma che ci sia spazio per le domande, l’imprevisto, da accettare come una grossa ricchezza.
E credo che il caso, il destino, o come volete chiamarlo, abbia scelto per me il mestiere più bello del mondo.