Ultima modifica 17 Giugno 2023
Mamma lo sono da 9 anni. Maestra da 16.
Sono le mie due facce della stessa medaglia, ma, a pensarci bene, credo che mai si siano incontrate.
Quando alcune mamme mi dicono Come fate a tenerli, io che ne ho due non do i resti, esce fuori tutta la distanza tra queste due figure. Ed io, nel bene e nel male, la misuro ogni giorno con i miei passi.
La capacità di gestire una classe esiste proprio perché gli studenti non sono tuoi figli, perché hai il distacco necessario per poter andare oltre le tensioni e agire in modo puntuale.
E da maestra riesco a gestire quello che a casa non mi riesce affatto.
La differenza si approfondisce nel momento in cui si apre il sipario delle responsabilità, che per un insegnante sono, nell’ordine:
– l’incolumità fisica
– la socializzazione e la relazione
– l’apprendimento
L’insegnante ha un centro e deve ogni giorno scagliare la freccia: nel gioco degli imprevisti e delle probabilità, c’è comunque una direzione da seguire.
Ecco, se volessi fare un paragone emotivo tra una mamma e un insegnante, potrei paragonare il mio lavoro ad un lungo viaggio in macchina con le mie figlie, un viaggio in cui i panorami, la musica, i discorsi cambiano continuamente, ma le mani sono sempre strette sul volante e gli occhi fissi sulla strada, perché il controllo a 360° è fondamentale ogni momento. Un viaggio in cui non si usa il navigatore, perché la meta è conosciuta.
Ma c’è un aspetto che una mamma non può comprendere fino in fondo.
Forse in questo sono fortunata, ma non so se le mie figlie possono dire lo stesso.
Ora mi spiego.
A scuola non esiste un tempo per osservare il bambino da solo: la relazione continua e il linguaggio verbale e non, per comunicare con gli altri, sono le due dimensioni in cui l’insegnante si muove.
Non esiste l’attimo di solitudine. No. Neanche per se stessa o per se stesso.
E il bambino a scuola mette in campo atteggiamenti, strategie, iniziative del tutto diverse dal bambino in casa: a scuola non c’è il bagno per chiudersi arrabbiato, né il divano per trovare un po’ di conforto con mamma.
Ecco, una mamma questo punto di vista non ce l’ha… o meglio, non ce l’ha in modo sistematico.
A scuola, in quest’ottica, anche il pianto ha un senso diverso, perché lì ti vedono tutti.
E per l’insegnante, il pianto, va assolutamente capito, interpretato, risolto “sul pezzo”, perché le conseguenze possono portare squilibri nei rapporti e automaticamente squilibri nel momento dell’apprendere.
Da mamma, invece, so quasi sempre perché piangono… anzi, tre su quattro è colpa mia.
Posso decidere che è giusto che si sfoghino, che è giusto che capiscano anche così i loro piccoli grandi errori o posso coccolare.
L’essere mamma, comunque, non aiuta affatto nel mio lavoro, mentre essere insegnante, spesso, mi dà una mano oggettiva quando ascolto i loro racconti scolastici, per comprendere meglio. Sapendo quanto i bambini a volte ingigantiscano le loro vicende scolastiche, infatti, ho le mie domande strategiche per comprendere i fuochi di paglia.
Ora non so se per le mie bimbe avere una mamma maestra sia facile.
Un giorno glielo chiederò.
A braccio, direi di no.
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