Ultima modifica 20 Giugno 2019
Rendiamo deboli e disorganizzati, inconcludenti ed “emotivizzati” i nostri ragazzi? In una parola, fragili?
Ne parla Adriano Scianca su Il Primato Nazionale che in breve denuncia l’eccessiva rilassatezza di alcune moderne teorie pedagogiche.
Il giornalista si pone in modo particolarmente critico rispetto al progetto “Una scuola” promosso da due ricercatrici dell’Università di Milano Bicocca, che dice no ai voti numerici, che non vuole compiti a casa e che dà uno spazio e un tempo dedicato alle emozioni.
Già 90 mamme hanno firmato la petizione depositata in comune a Varese per attivarlo.
Lasciamo stare il voto, che per me dovrebbe comparire solo alla scuola secondaria, e i compiti, che aprono una voragine (tanto a risolvere il problema ci pensano i genitori e i sondaggi in tv).
Ho pensato come al solito Ecco questi giornalisti che distruggono senza sapere…
Ma esploro da insegnante, per curiosità, il progetto che inizia così:
“È un gravissimo errore pensare che la gioia di vedere e di cercare possa essere suscitata per mezzo della coercizione e del senso del dovere” A. Einstein
E vuoi che Einstein non abbia ragione (a parte il fatto che è vissuto in anni in cui la coercizione si mangiava a colazione, pranzo e cena)?
Il protocollo di sperimentazione comunque, nelle finalità e nella considerazione della persona, non lo trovo così distante dalle nostre Indicazioni Nazionali.
Fin qui tutto ok.
E’ il come che…
Se guardate l’orario proposto dal progetto pilota, compare un’ora di circle time ogni giorno (nei primi tre gradi di scuola) per dare spazio alle emozioni: tenendolo per l’infanzia, mi sembra dispersivo e poco funzionale per primaria e secondaria.
Sì mi spiego: secondo la mia esperienza, a scuola non si mette un punto a capo per lavorare bene, se ne mettono diversi e dipende da tante cose, non solo dalle emozioni.
E a volte non è scontato che parlare di problemi e difficoltà, e per di più a lungo, faccia bene, per due motivi che vi “drammatizzo” subito:
1. Luca arriva alle 8 e se ne va al posto tutto torvo, sbatte lo zaino sul banco e dallo sguardo in terra capisci al volo che “Non se ne parla proprio”. Quando inizia a lavorare non ci pensa più e la fronte si distende. I fatti suoi se li vuol tenere e preferisce non pensarci.
E gli vogliamo dire che sbaglia? In fondo ha gestito la sua emozione ed ha lavorato. Uno stato d’animo solo suo. Non gli serviva altro che cominciare.
2. Giovanna ha bisogno di sfogarsi perché ha litigato con la mamma.
E’ necessario che abbia uno suo spazio privato, una parola per ritrovare coraggio, ma da insegnante, credo sia educativo farle comprendere con dolcezza che i problemi personali sono una parte importante, ma non totalizzante, della sua vita e che spesso vanno messi da parte per il fare: “ora vai che iniziamo…magari dopo se ti va ne riparliamo”. E capita spesso che il dopo non ci sia e che alla fine il poter mostrare a mamma il “bravissima” sul quaderno risolva il problema ancor prima dell’uscita.
In entrambi i casi trovo superfluo un momento dedicato così prolungato, che potrebbe anzi amplificare le fragilità.
E se anche alla base del progetto ci fosse l’apprendimento emotivo (veicolato da emozioni positive, cioè), beh è altra cosa rispetto ad un focus sulle emozioni: è lavorare tenendo conto di esse, sia in entrata che in uscita, come motore del processo di formazione di conoscenze e competenze.
Sorriso, accoglienza sempre, ma l’obiettivo è imparare e diventare, non sfogare ogni giorno ciò che si sente.
Mai perdere di vista che la scuola deve essere una palestra di vita, non una bolla utopica.
Dopo il circle time sulle emozioni, c’è la proposta di una riflessione collettiva su “come la mandiamo oggi”: partendo dalle curiosità dei bambini ogni giorno, nel protocollo, si organizzano attività, esperienze, uscite.
Ma se seguo ogni giorno le curiosità e le indicazioni dei ragazzi, avrò modo a dare concretezza al lavoro?
Poi su che base scelgo? Sulla curiosità preponderante? Sul turno? Ciascuno il suo?
Farei una domanda alle ricercatrici: quanto tempo impiegherebbe l’insegnante a recuperare materiali, organizzare eventuali uscite nell’immediato, partendo dal “non so” al mattino, prima di poter “fare” realmente?
Occorre essere veramente bravi, quasi acrobati della didattica, nel trovare continuità, collegamenti, scopi quotidiani e spazio per tutte le discipline che ancora sono il nostro riferimento anche a livello organizzativo dei docenti.
Sono dell’opinione che in una scuola “normale” sia sufficiente una sensibile flessibilità e l’accoglienza di proposte ed iniziative personali nell’economia di un’attività programmata con precise finalità.
E quindi avrei scelto la frase di Einstein “l’intelligenza sta nel cambiare quando è necessario”.
Per un bambino è fondamentale prendere decisioni ed esprimere la propria opinione, ma lasciargli decidere cosa fare a scuola lo trovo poco formativo (pur col supporto e la guida dell’insegnante).
Sì, perché la vita di oggi, per tutti, è varia e imprevista. Aggiustarsela è impossibile.
E mi scopro d’accordo con Scianca.
Non sono convinta che passare ai bambini l’idea che il mondo esterno sia attento alle loro emozioni ogni giorno e che possano decidere cosa fare al lavoro, sia così positivo.
Forse potrebbe essere un’ottima idea in zone di forte dispersione scolastica, in cui la persona con la sua umanità viene azzerata da fattori ambientali deprimenti. Ma credo che in certe zone gli insegnanti già si facciano in 8 senza protocolli sperimentali per dare accoglienza, ascolto e comprensione a bambini e adolescenti carichi di problemi seri.
Per concludere, non abbiamo certo bisogno di una scuola fredda e individualista, ma neanche di una scuola che dilati lo spazio e il tempo delle emozioni e delle propensioni personali del momento. Potremmo fare più danno che altro giustificando una fragilità che già esce come rabbia o chiusura; sarei felice di aver torto, qualora il modello proposto funzionasse.