Ultima modifica 31 Ottobre 2024
Oggi affrontiamo un tema poco dibattuto: lo sharenting.
Viviamo tempi davvero strani. Mentre in Europa si fanno sempre più stringenti le norme che regolano la tutela dei dati personali dei cittadini (il Regolamento UE 2016/679 è un mattone di 112 pagine), con tanto di sanzioni amministrative e penali per i trasgressori ficcanaso, nel corso degli ultimi decenni si è allargata a macchia d’olio la platea di persone che violano in maniera sistematica la riservatezza propria e delle persone che le circondano.
L’utilizzo compulsivo e “sistemico” degli strumenti digitali in generale e dei social network in particolare, ha fatto sì che un utente possa adire le vie legali contro chiunque ne utilizzi indebitamente i dati personali e contemporaneamente pubblicare un selfie di tutta la propria famiglia in posa davanti al portone di casa, con tanto di via e civico ben visibili sulla targa attaccata sopra la testa. Un gran bel corto circuito logico.
La Società dello Spettacolo è la nostra società
È prassi consolidata da parte di milioni di fruitori dell’universo social pubblicare, con cadenza regolare e malcelata frivolezza, foto di sé nelle più svariate pose, nei momenti e nei luoghi più impensabili (nemmeno la toilette viene ormai risparmiata quale scenografia del proprio bieco esibizionismo).
Non è questa la sede dove analizzare le origini di tali pratiche né le motivazioni della loro pacifica accettazione a livello sociale; ci basti notare il progressivo slittamento da un diffuso bisogno di gratificazione attraverso l’esibizione a un diffuso bisogno di esibizione senza che la gratificazione sia necessaria o quantomeno richiesta.
Ci troviamo immersi (sommersi?) in modo ineluttabile in quella che Guy Debord ha convenientemente definito Società dello Spettacolo:
“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini.”
A partire dalla seconda metà del XX secolo e con maggiore intensità durante gli anni ’90, con la diffusione su larga scala dei mass-media, ma soprattutto durante gli anni zero con l’exploit dei dispositivi elettronici, al rapporto sociale di tipo tradizionale – che i francesi definirebbero vis-à-vis – si è progressivamente sostituita una modalità di interazione tra individui filtrata dalle immagini (quando non espressamente fondata su di esse).
L’onnipresenza delle immagini
Accade sempre più spesso che relazioni amorose nascano attraverso i social media, dove i pretendenti decidono di fissare un appuntamento dal vivo solo dopo aver gradito l’aspetto esteriore del potenziale partner previamente visionato in foto; o che si decida di trascorrere il week-end nell’agriturismo immerso nella natura le cui immagini hanno migliaia di “mi piace” sulla relativa pagina Facebook; o ancora che la linea sinuosa e l’accostamento originale dei colori ci convinca ad acquistare su Amazon una nuova macchinetta per il caffè piuttosto che un binocolo per nostro figlio.
Tuttavia, fin quando l’esibizione estetica quale necessario medium nel rapporto tra individuo e individuo (o tra individuo e merce) si esercita entro i confini del mondo adulto – con buona pace di tutte le regole sulla privacy scritte nel summenzionato Regolamento e quelle infrante nel dimenticato universo della buona creanza – passi pure.
Ma la questione si fa problematica (quando non espressamente pericolosa) ogni volta che l’immagine esibita è quella di un minore.
Gli esempi ahimè non mancano, e girovagando per i social è tutto un caleidoscopio di foto di bambini ignari di essere diventati, senza il loro consenso e senza nemmeno poterlo consentire (come nei casi dei più piccoli), delle scimmiette da esibire al circo mondo.
Ti affacci su Facebook e vedi la foto di tuo cugino al primo giorno di asilo; apri TikTok e scopri che la tua amica ha postato la foto della sua figlioletta di 3 anni mentre ciuccia un lecca-lecca; su Instagram video di bambini al parco giochi, video di bambini che guidano l’automobilina, foto di bambini nel passeggino, foto di bambini che fanno la foto ad altri bambini ecc.
Cos’è lo sharenting?
Quest’eccessiva e costante sovraesposizione in rete degli infanti ha un nome specifico: sharenting.
Di cosa si tratta esattamente?
Il sito internet di Save the Children ce ne fornisce una definizione puntuale:
“Il neologismo, coniato negli Stati Uniti, deriva dalle parole inglesi “share” (condividere) e “parenting” (genitorialità), anche se più propriamente si dovrebbe privilegiare il termine “over-sharenting”, ovvero l’eccessiva e costante sovraesposizione online di bambini e bambine”
Il fatto che la pratica dello sharenting sia sempre meno problematizzata quanto più è andata consolidandosi la sua normalizzazione nella vita quotidiana (off e on line) di milioni di famiglie, ha offuscato i rischi ai quali i minori sovraesposti vanno sempre più incontro.
Si parte dalla violazione della privacy alla mancata tutela della loro immagine, passando attraverso le potenziali ripercussioni psicologiche quando da “grandi” scopriranno di essere stati costantemente esposti sulla pubblica piazza (seppure virtuale), fino al rischio di diventare materiale a costo zero per la diffusione di contenuti pedopornografici a pagamento.
Ma i genitori reporters ne sono consapevoli?
Evidentemente non tanto: gran parte di essi tende a sottovalutare questi rischi, un’altra buona parte se ne frega e basta.
L’acme dello spettacolo e un’esortazione
L’acme di questa insana tendenza l’ho potuto osservare con i miei stessi increduli occhi:
alle ore 09.03 una mia conoscente partorisce, alle 12.05 compare sullo stato di WhatsApp (e in contemporanea su almeno tre social network) la prima foto della neonata.
Appena tre ore di vita ed è già in vetrina, appena tre ore ed è già una top model.
L’equivalente di riporre la culletta al centro della piazza del paese e gridare con il megafono che chiunque lo desideri può avvicinarsi a guardarla, toccarla, annusarla.
I più reazionari mi contesteranno questa metafora, suggerendomi il necessario distinguo tra un voyeurismo reale, fisico e pertanto pernicioso nella sua possibilità di realizzare un contatto fisico tra l’osservatore (in buona o cattiva fede che sia) e l’oggetto-bimbo osservato e un voyeurismo virtuale, fatto e finito nel semplice atto di guardare a distanza (di sicurezza) l’oggetto-immagine del bimbo, senza possibilità di nemmeno sfiorarlo.
E l’intima sacralità del rapporto madre-figlio su quale altare l’abbiamo sacrificata?
Il concetto di focolare domestico quando si è tramutato in un inservibile retaggio del passato?
E la tutela dei minori come la tuteliamo?
Queste domande, credo, siano pertinenti all’una e all’altra circostanza, che la piazza nella quale esibiamo disinvoltamente i nostri bimbi sia reale o virtuale.
Probabilmente da qui a qualche anno verrà promulgata qualche legge ad hoc per sanzionare la pratica dello sharenting; probabilmente da qui a qualche anno ci sarà una presa di coscienza generale per cui tale pratica verrà socialmente esecrata.
Probabilmente.
Nell’attesa, cari genitori, che ne dite di pensarci un po’ su?