Ultima modifica 10 Ottobre 2019

Tramite il blog mi ha contattato una signora italiana in procinto di trasferirsi in Cina. Come immaginabile, era piena di dubbi e di domande: cose che ora, dopo tre anni di vita in questo paese, a me sembrano quasi scontate e semplici ma che, per chi è alle prese con un trasferimento internazionale, possono apparire ostacoli insormontabili, come ad esempio la scelta della scuola, del quartiere dove stabilirsi, la possibilità di contattare una comunità italiana o straniera, la facilità a reperire il cibo preferito dai bambini.

esteroDurante questi anni un paio di altre donne mi hanno contattato chiedendomi informazioni. Di alcune poi non ho avuto più notizia: forse avranno cambiato idea? Certo è che tutte si chiedono una cosa: ma vale la pena di fare un’esperienza all’estero? Mollare tutto per uno, tre o cinque anni (le durate standard dei contratti distaccati), far cambiare ambiente e scuola ai bimbi, scontrarsi con difficoltà grandi e piccole, del tutto nuove e talvolta spaventose?

La mia risposta è sì: se avete la possibilità di trascorrere un periodo all’estero, fatelo senza esitazione! Non pensate che per i bimbi sia traumatico, che i vostri genitori lontani dai nipoti moriranno (o che voi non resisterete senza vedere la mamma ogni giorno): l’essere umano è fatto per essere adattabile e, sebbene i momenti negativi siano inevitabili, il bilancio finale non può che essere positivo!

Vivere all’estero amplia le vostre vedute, vi costringe a lanciarvi fuori dalla zona di comfort, ad accettare sfide nuove che allenano la vostra flessibilità e la vostra capacità di affrontare i cambiamenti. Vivere all’estero significa allenare il vostro inglese, imparare forse anche un’altra lingua, entrare in contatto con culture diverse ed imparare a conviverci, nonostante le distanze culturali, e imparare a sconfiggere la timidezza.

Per i bambini è davvero un’occasione d’oro: soprattutto se proiettati in un ambiente internazionale e multiculturale, imparano che le differenze di pelle, fattezze e modo di vestire sono marginali: quello che conta è trovarsi bene con le persone. Ho notato che tra ragazzini abituati a vivere in questo contesto è meno comune prendersi in giro per dettagli come gli occhiali o i chili di troppo: sono talmente abituati alla diversità che queste cose nemmeno le notano.

Alcuni iniziano l’avventura in terra straniera convinti di star via solo qualche anno, per poi prenderci gusto e non voler più tornare indietro: diventano delle vere e proprie famiglie nomadi che ogni tre o quattro anni cambiano paese (e forse anche continente). Io sinceramente questo non credo che riuscirei a farlo, anche se qualche volta l’idea di cambiare mi sfiora (soprattutto quando qui a Suzhou il cielo è grigio e mi viene la crisi). Nello stesso tempo, pur trovandomici molto bene, non credo che arriverò a considerare Suzhou come casa mia, nemmeno tra dieci anni: troppo profonde le differenze di cultura.

Per chi torna in patria conclusa la missione all’estero, spesso lo shock è quasi più forte di quello provato i primi giorni di espatrio, quando anche i gesti più semplici sono fonte di ansia e smarrimento e la sensazione di solitudine può essere forte: lo chiamano shock culturale inverso e chi ci è passato dice che ci vogliono parecchi mesi per riadattarsi ai ritmi e alle abitudini del proprio paese di origine, rispetto al quale ormai ci si sente scollegati.

In ogni caso, che si resti per decenni nello stesso posto, che si cambi paese ogni tre anni o che si torni senza alcun rimpianto in madrepatria, la parentesi estera resterà un ricordo indelebile e importantissimo della nostra vita, qualcosa che ci ha arricchito come persone e ci ha fatto crescere e che ha dato una marcia in più ai nostri figli.

Antonella Moretti

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