Ultima modifica 1 Settembre 2016
“Mamma a scuola non ci voglio più andare. Io non sono un terremoto”.
Inizia con questo appellativo della maestra di una scuola materna romana la lunga e faticosa storia scolastica del mio bambino e la mia lunga battaglia contro l’arroganza dell’ignoranza.
Ero abituata alle sue duemila domande su perché si muore, come si nasce, perché l’acqua è salata…
I suoi continui movimenti per scrutare, capire.
A un anno, in vacanza, dopo aver chiesto da solo cosa voleva per cena, correva via a giocare nella saletta a costruire con i lego o a fare altri esperimenti. Per me era normale volesse sapere e non si accontentasse di una semplice spiegazione da bambini.
Così dopo una discussione con la “poco” maestra decisi di spostare il bambino in una scuola internazionale dove rimase quattro anni, trascorsi, tutto sommato bene anche se anche lì veniva bonariamente chiamato chat box. Poi, siccome anche la sorella doveva frequentare la scuola internazionale che, come è risaputo, costa un occhio della testa, abbiamo deciso di cambiare. Sbagliando.
Da quel momento note su note per il comportamento poco incline all’obbedire.
Salto alla scuola pubblica italiana a metà della quinta elementare. “E’ bravo, molto intelligente, però parla troppo, è permaloso e non socializza”. “Dai Gaby – gli dicevo – stringi i denti e vai avanti”. “Ma io mi annoio mamma – rispondeva – Io queste cose le so e poi non le spiegano neppure bene”.
Arriviamo in prima media e inizia il massacro…
L’illuminazione arriva dalla mamma di un compagno di classe che mi dice “ma non sarà plusdotato?”.
“Plusdotato? E cosa vuol dire?”.
Inizio a leggere, mi informo e più leggo più riconosco i segnali nel mio Gaby. Decido di fargli fare una valutazione. Un test Wisc iv che, spiega la psicologa, si fa in 4 o 6 sedute. Ok. Due sedute ed è finito. Torno a casa con la convinzione di avere un figlio rompiscatole e iperattivo. Avevano ragione gli insegnanti.
Dopo qualche giorno torniamo dalla psicologa per avere il risultato e sorpresa: “Non mi era mai accaduto di concludere il test in due sedute – sentenzia la dottoressa- è velocissimo il suo qi non è valutabile ma ha 148 di indice di abilità generali. Insomma è quello che viene definito ultra plus dotato”.
Ah ecco… Da una parte sono contenta perché avevo ragione dall’altra entro nel panico da “E ora che facciamo?”.
La plusdotazione in Italia non è ancora conosciuta ai più, anzi spesso viene scambiata per iperattività, deficit d’attenzione o addirittura per sindrome oppositiva.
Problematiche amplificate da una scuola che li mortifica.
I bambini plusdotati (o gifted children) si annoiano e quindi chiacchierano, fanno continue domande, a volte correggono gli stessi insegnanti. Mio figlio a 12 anni sta studiando la fisica quantistica ma la sua insegnante di matematica è un’entomologa e quando lui chiede spiegazioni non sa che rispondere.
Sono studenti scomodi.
Non riconoscono l’autorità e ribattono in maniera anche appropriata ai rimproveri, non riescono e non possono socializzare con i compagni perché non hanno argomenti in comune.
I loro sensi sono amplificati per cui un piccolo guaio diventa una tragedia, la loro emotività è spesso come quella di bambini molto più piccoli.
Insomma sono un universo che si deve aver voglia di scoprire, ma la nostra scuola non ha tempo né voglia di farlo. E mentre nel resto del mondo i plusdotati vengono coccolati, capiti e aiutati negli studi con specifici piani diversificati da noi vengono mortificati.
La scuola italiana, ad esempio, prevede solo un salto di classe nella vita scolastica. E allora? La scuola italiana per tradizione non diversifica l’insegnamento per cui anche se sei avanti con gli studi non puoi fare qualcosa di diverso dal programma scolastico. Per esempio mio figlio è praticamente bilingue ma in inglese ha 8 perché la sua insegnante si ostina a fargli usare il presente quando lui parla come un americano usando adeguatamente tutti i tempi verbali e anche lo slang.
Nel sistema scolastico italiano a stento si è riusciti a far passare il concetto di inclusione per i bambini con difficoltà. Ancora, però, non si è riusciti a far passare il concetto di insegnamento differenziato verso l’alto per chi ha una marcia in più. Soltanto la Regione Veneto ha realizzato delle Linee guida per potenziare l’istruzione dei cosiddetti gifted children. Il resto è deserto.
Poche le associazioni che aiutano le famiglie nel difficile cammino, che realizzano attività adeguate alle esigenza di questi bambini o ragazzi. Attività che non possono essere organizzate per età ma per potenziale o quoziente intellettivo. Poco il lavoro per sensibilizzare le scuole e gli insegnanti.
Tra l’altro sono tutte al Nord come sede principale. C’è l’Aistap, la cui sede principale è a Genova, con numerosi comitati regionali attivissimi. Tutti si occupano di valutazioni, divulgazione e di affiancamento alle famiglie. Sono l’unica boa per chi ha un figlio plusdotato, ma a queste associazioni di solito ci si arriva dopo anni di tribolazioni convinti di avere figli da curare, dopo mortificazioni e percorsi scolastici spesso devastanti, arrabbiature, delusioni, umiliazioni.
Le famiglie spesso si nascondono perché si ha paura di dire che il proprio figlio è plusdotato perché gli altri ti guardano come se ti volessi vantare non sapendo che chi ha un gifted children vive continuamente sulle montagne russe e sono più le volte che urli di paura e sconforto che ridi di gioia.
Marinella Busato